‘Architecti est scientia’

Il linguaggio dell’architettura come forma di conoscenza

Articolo per la rubrica "L'architettura dopo la Storia" per "il Quotidiano del Sud"

Pier Giuseppe Fedele | Sabato, 16 Gennaio 2021

L’architettura è esplosa in particelle di micro-pensieri: ogni pensiero (si parla qui di pensieri ‘definiti’) diviene l’ennesima ‘corrente’ che produce l’ennesimo punto di vista che, specie in architettura, produce nel migliore dei casi vuota moltiplicazione di linguaggi. Il polimorfismo dei linguaggi non ha alcun potere di incidere nel Reale per modificarlo: l’architettura è scesa sul limitante piano dell’utilitarismo. Ma la questione del linguaggio, e della sua corrispondenza con le cose, è strutturale all’architettura. La questione del linguaggio però non riguarda la ricerca della definizione di un codice personale o autobiografico di chi ‘fa architettura’ a partire da segni convenzionali (decisi chissà da chi), men che meno di un punto di vista ‘soggettivo’ sulla cosa, ma nei casi migliori attiene alla possibilità di trovare – come si direbbe in semiologia - il segno capace di approssimarsi il più possibile alla cosa che esso stesso denota. È il linguaggio apofantico dei Greci, che rivela la natura della cosa detta e ne permette la verifica di ‘vero o falso’, ovvero di quello legato alla (sua) necessità e non alla (sua) contingenza. «Percioche lo Artefice opera prima nello intelletto, et concepe nella mente, et segna poi la materia esteriore, dello habito interiore specialmente nell'Architettura. Percioche ella sopra ogni arte significa cioè rappresenta le cose alla virtù, che conosce, concorre principalmente a formare il concetto secondo la sua intenzione: et questo proprio significare. Ma l’esser significato è proprio esser rappresentato al sopradetto modo. De i segni alcuni sono così adentro che veramente sono come cagioni delle cose. Altri fanno una superficiale, et debile istimatione di quelle….». In questa citazione di Daniele Barbaro, dalla sua traduzione (1556) dei Dieci libri dell’architettura di Vitruvio, emerge chiara la questione del senso della ricerca sul linguaggio in architettura. D’altra parte già Vitruvio, nel proemio ai Dieci Libri, aveva scritto: «ex duabus rebus singulas artes esse compositas, ex opere et eius ratiocinatione» [ogni arte partitamente è di due cose composta, cioè dell’opera, e della ragione di quella], indicando l’esistenza di una sorta di ‘differenza ontologica’ tra forma pensata e forma ‘detta’. È quindi nella condizione di possibilità (quell’approssimarsi ‘il più possibile’ sopra detto) che si apre lo spazio vero e proprio del significato delle cose. In architettura quello spazio è occupato dalla ‘mathesis universalis’, ovvero da una scienza dell’ordine che individua leggi, princìpi e modi di ‘fare’: rapporto tra le parti, simmetria/a-simmetria, connessioni morfologiche e sintattiche, ritmo, ars combinatoria, in sintesi tutte le leggi capaci di restituire la commensurabilità delle scelte. Naturalmente questi ‘mezzi’ occupano lo spazio di quell’eccedenza propria del linguaggio architettonico, ma non sono né possono mai coincidere con essa, non possono risolverla, per quella differenza ontologica connaturata al linguaggio tout court, per quello scollamento tra parola e cosa che sempre lo caratterizza. La natura del linguaggio, la mathesis che lo sostiene quindi, è tale che pur partendo da essa non può farsi contaminare dalla contingenza, non può legarsi esclusivamente a essa, ma deve di ‘necessità’ affrontare i dati dell’esperienza ponendosi come obiettivo quello di ordinarli alla luce della natura del significato – cioè della sua physis – da manifestare attraverso la forma. Ma c’è di più, ed è essenziale per chiarire il tutto: l’eccedenza non è fuori della parola (questo è l’errore di tanta architettura che si concentra solo sulle forme, e questa è la grande lezione dei Maestri), ma è a essa immanente, è ‘nella’ parola, seppur paradossalmente mai afferrabile. Ecco la caratteristica natura conoscitiva del linguaggio architettonico, la sua riduzione a ricerca del senso delle cose, ricerca della definizione delle sue ‘parole’. Ed ecco perché è sempre risultato vano spostare lo sguardo dal problema della differenza ontologica tra parole e cose, ecco perché in architettura la ricerca non è mai conclusa, essendo continua e infinita spinta in avanti sulla stessa identica questione, perché «ciò che non si può dire è per definizione ciò che non si è potuto dire» (Cacciari, 2014).


Didascalie immagini:
- Pianta di tempio da Vitruvio tradotto da Barbaro, 1556
- L.B. Alberti, Colonna per un tempio, De Re Aedificatoria (1450)