In architettura il nuovo non è solo innovazione.
Il vero nuovo custodisce il passato

Articolo per la rubrica "L'architettura dopo la Storia" per "il Quotidiano del Sud"

Pier Giuseppe Fedele | Sabato, 2 Gennaio 2021

«In origine, per lo più, un errore e una determinazione arbitraria buttati addosso alle cose come un vestito e del tutto estranei all’essenza e perfino all’epidermide della cosa stessa – […] sono gradatamente, per così dire, concresciuti con la cosa e si sono radicati in essa fino a divenire la sua carne stessa: fin dal principio la parvenza ha finito quasi sempre per diventare la sostanza, e come sostanza agisce!». In questo passo della Gaia Scienza (Libro II, 58), Nietzsche sottolinea l’importanza dei ‘nomi delle cose’ su quel che le cose stesse sono. Quali sono i nomi delle cose, in architettura, sulle quali sono gradatamente concresciuti gli errori e le determinazioni arbitrarie addosso alle cose come un vestito, e da cui liberarli? È questo il lavoro compositivo nella sua essenza, la necessità di rintracciare il nome originario, en arché, ovvero il fondamento, il comando (arché significa comando) che sempre si rinnova. E il comando è tale se, essenzialmente, domina e guida. Siamo quindi tutti figli di un ‘padre’ inafferrabile che pure ci guida e ci domina? Ogni separazione da esso, per quanto radicata nella contingenza, assume la forma di un tradire perché infrange un legame con l’inizio che è fondativo per ogni ‘nome’ che la cosa porta con sé. È quella potenza del comando iniziale che permette di orientarsi nella selva dei significati che minano - da mille punti di vista, oggi più che mai - la forma/significante: cedere, nella smemoratezza del comando iniziale, cioè dell’irrevocabile suo vero nome, è trovarsi altrove, è percorrere le strade del ‘non-essere’. Il nome della cosa, anche in architettura, pone sempre la stessa domanda e chi gli sta di fronte non può esimersi dal cercare risposta. Ogni ‘novità’ non può recidere il legame, la relazione, il nesso con il ‘suo’ immemorabile inizio, anzi essa si fonda a partire da quel fondamento. È grazie a quell’ “assenza” che può trovare ragione il ‘nuovo’, a patto cioè che si ponga in relazione al comando iniziale contenuto nel nome, liberato dalle determinazioni arbitrarie incrostate nel corso della Storia. Per essere veramente nuovi non è sufficiente individuare un qualsiasi passato ‘utile’ per il nostro oggi, da far progredire, ma è necessario affrontare il ritorno al nome ‘dentro di sé’, nella consapevolezza cioè di essere sempre in relazione, essenziale e mai occasionale, con l’inizio e con la sua mancanza. Una condizione tragica, alla ricerca di una via d’uscita attraverso la ricerca della ‘parola giusta’ confusa nelle trame della contingenza (la parvenza di cui parla Nietzsche): il nuovo, insomma, non è l’innovazione. Il nuovo accade dall’interno, mai dall’esterno, di una scissione. Per fare un esempio, non c’è architettura più nuova della Neue Nationalgalerie di Berlino, di Mies van der Rohe, proprio se la si confronta con un tempio greco. La scissione con il passato operata da Mies con la Neue Nationalgalerie è fondata sull’intrinseco legame con la forma-Tempio da un lato e con il tipo ad “aula” dall’altro. La sua novitas emerge dall’interno del discorso architettonico, non si separa da esso e non pretende di ‘dire altro’ da quanto già detto, è prodotta da quel passato che in essa è custodito. È per questo che «dove questa relazione non sia più riconosciuta come essenziale, “rivoluzione” finirà con l’indicare il naturale salto tecnologico-organizzativo all’interno dell’ininterrotto progredire del sempre-uguale» (Cacciari, 2015). Finirà, cioè, con essere semplice progresso e superamento delle tappe di uno stesso percorso il cui destino è prevedibile, come è il Tecnologico oggi. Ma mai affermazione del nuovo.


Didascalie immagini:
- Il Partenone ad Atene (447 a.C.) e la Neue Nationalgalerie a Berlino di Mies van der Rohe (1968).