Architettura, Tecnica e Specialismi

Articolo per la rubrica "L'architettura dopo la Storia" per "il Quotidiano del Sud"

Pier Giuseppe Fedele | Sabato, 9 Gennaio 2021

L’architettura vive progressivamente, da qualche decennio, in un rapporto di sempre maggiore subordinazione con il mondo della scienza nella sua traduzione in quello degli specialismi. La potenza della Tecnica si è appropriata di ogni procedura compositiva fino al punto da cancellarne le premesse: il suo è un cammino autonomo ed energicamente autoreferenziale. D’altra parte la questione della Tecnica e il pericolo della sua dittatura ha riempito, il secolo scorso, pagine e pagine di lucide analisi e prefigurazioni: «la tecnica tende ad avere come scopo l’incremento indefinito della capacità di realizzare scopi» (Severino). L’agire è cioè subordinato al mezzo al punto che il destino del potenziamento del mezzo è divenuto obbiettivo, mèta: «La teoria scientifica è un progetto di dominio della totalità». Nel momento in cui una tecnica specialistica si pone uno scopo, risulta evidente che questa tecnica non può «servire due o più padroni», non può avere cioè due scopi ma soltanto uno. È per questo motivo che il ‘discorso tecnologico’, oggi dominante nell’architettura che si costruisce, non può assumere come finalità se non quello di superare senza sosta i suoi stessi obiettivi, sostituendosi così alla ragion d’essere dell’architettura stessa che è – latu sensu - quella di unire il molteplice: archi-tettura è unione di archè e tecton, quindi costitutivamente sintesi, nesso, relazione. Le singole tecniche, essendo autoreferenziali, tolgono spazio all’Intero (architettonico): costruire una architettura è fare i conti con la complessità di tenere insieme le parti in vista dell’espressione dell’‘Uno’. La concezione «scientistico-tecnicistico-fiscalistica» della tecnica fa sì che si perda lo scopo originario dell’architettura rendendolo subordinato a essa, cioè vinto dalla necessità degli obiettivi posti dagli strumenti e dalla loro necessità di affermare la propria potenza. Eppure la potenza della Tecnica – ovvero della scienza tout-court – non può essere messa in discussione: la scienza nella sua traduzione in tecnica è un ‘fatto’, ed è già un fatto filosofico, cioè una visione del mondo. Ignorarlo equivarrebbe a sottrarsi al Reale per appoggiarsi su una qualsiasi ideologica visione ‘altra’. Diviene così indispensabile pensare all’Idea come motore e, insieme, spazio della sintesi, produttrice di unità, a fondamento di una sintassi che tenga strette le maglie della logica delle relazioni e dei nessi su cui è sostanzialmente fondata l’architettura da sempre. D’altra parte è la Polis stessa, la città nella sua sostanza, a essere relazione tra le parti, relazione ordinata di forze dialettiche, di scontri tra ‘potenze’ che cercano di prevaricare le une sulle altre, forma del loro equilibrio possibile. Non si tratta (più) quindi di determinare una nuova ennesima ‘visione’ - che forza di azione potrebbe mai avere a fronte della potenza messa in campo dalla scienza? - ma di cercare l’equilibrio delle istanze a partire dal fondamento, rammemorandolo, come unica possibilità capace di spodestare l’egemonia della tecnica, evitando che il fine si subordini ai mezzi. La ‘de-cisione’ (intesa come taglio-scelta) è la dimensione politica che salva un fare che non può snaturarsi, pena la sua riduzione a mortificante utilitarismo: quante architetture del recente passato - anche delle cosiddette ‘archi-star’ - sono oramai vecchie perché in esse, vincendo il codice tecnologico, ha vinto una ‘potenza’ che si fonda – nel suo presupposto – sulla necessità di auto-superarsi? E, per la stessa logica, quante architetture del passato, costruite con tecniche oramai superate, rimangono portatrici di valori universali capaci di superare qualsiasi discorso storico? In sostanza, si tratta di sottoporre/subordinare le ‘pretese’ delle singole parti (figlie degli specialismi) al Tutto, all’Idea (qui intesa nel suo significato originario di forma), per far sì che nella singola parte possa risuonare la ‘visione’ del ‘non-detto’ (l’Idea) che è poi unico motivo del nostro fare. Non è altro, in fondo, che il concetto della concinnitas Albertiana: «ordinare secondo leggi precise la parti che altrimenti per propria natura sarebbero ben distinte tra loro, di modo che il loro aspetto presenti una reciproca concordanza», con il quale riuscire a vedere, finalmente, la bellezza dello xynon, cioè la bellezza del Tutto.


Didascalie immagini:
- S. Serlio, Scena Tragica (Il secondo libro della perspectiva), 1475-c.1554