Alberti e Piranesi: Quale Moderno?

Articolo per la rubrica "L'architettura dopo la Storia" per "il Quotidiano del Sud"

Pier Giuseppe Fedele | Sabato, 04 Aprile 2020

Nulla è detto che non sia già detto (“Nihil Dicitum quin prius dictum”): questo è il motto ricorrente che informa il discorso sull’architettura (De Re Aedificatoria, 1485) di Leon Battista Alberti (1404 – 1472) nell’età dell’Umanesimo. Quel dire l’Antico, sostituitosi alla Natura, non è ripetizione dei modelli, ma occasione di dire meglio. Un dire immerso in un tempo duplice: da un lato, tempo di decadenza di una età aurea lontana («quei virtuosissimi passati antiqui»), il ‘Tempus aedax’ che tutto corrompe; dall’altro, tempo che dona, occasione per «res novas» e «inauditas» se di quell’aurea ætas si fa profitto, come ‘nani sulle spalle dei giganti’ recita uno dei tòpos albertiani. Un carattere duplice di un tempo comunque lineare, perché riprende il discorso aperto dagli Antichi. Alla luce di questa concezione del tempo, i moderni di Alberti sono ‘semialati’, rispetto agli Antichi alati, sono quindi – e devono essere – semidèi: li rappresenta con l’occhio alato, occhio che è simbolo di quel vedere scrutatore («quelle proprietà che si possono constatare con i propri occhi») in uno con la necessità di guardare sopra il tempo (le ali per oltrepassarlo), per sorvolare il fiume della vita e della «vicissitudo», ali come necessità di guardare dall’alto ciò che appare. Ma c’è un altro moderno. Nella tavola IX (1761) delle Carceri di G. B. Piranesi (1720 - 1778) compare un altro ‘occhio’, questa volta una costruzione architettonica, attraversato da disarticolate strutture lignee: lo spazio euclideo è crollato, la prospettiva che tutto ordinava scardinata, nessu punto di riferimento ci aiuta a orientarci. Piranesi, o l’«architetto scellerato» di Sadiana memoria, come lo definì Tafuri nel 1980, esercita una sistematica «critica al concetto di centro». È con le Carceri che Piranesi incarna l’inizio di quella frantumazione dell’ordo architettonico che arriva sino a noi, ed è da quel momento che Tafuri fa iniziare il moderno che «tende a formulare ipotesi più che a fornire soluzioni». Una visione del moderno dove i precetti teorici albertiani di concinnitas (armonia) e di finitio (proporzione) - i princìpi di valore dell’Antichità - perdono fecondità a favore del «divorzio definitivo dei segni [architettonici] dai loro significati». Un fare, questo, che ragiona sull’ipotesi di nuove grammatiche piuttosto che sulla ricerca – infinita – della definizione dei significati del ‘discorso’ architettonico. Due occhi che ‘si guardano’ quindi, due simboli a confronto per due idee di moderno contrapposte: architettura come costruzione versus de-costruzione dell’architettura, ricerca del permanente nel mutevole versus elaborazione di metadiscorsi. Ma la ragione che devia dall’impulso conoscitivo, dalla sua genesi teoretica, per avanzare nei nessi astratti del discorso della realtà (e delle sue crisi), finisce per dare altrettante risposte storiche, cade nella ‘rete delle astrazioni che invischia tutto’ (Colli), offuscando il Tutto fino a perdere non il centro ma il suo stesso fondamento: i metadiscorsi sono incidenti storici quindi, una lente deformante che allontana dal logos autentico. «La concretezza del mondo presente è una astrazione mascherata, […], ogni fremito è una menzogna, ogni immagine è un miraggio»: così scriveva G. Colli nel 1974, perché se si scompone il presente storico si ottengono frammenti di passato, perché il profondo è sempre uguale e in esso non c’è divenire, il miraggio - della realtà - è portatore di un velo di finzione, e di esso non ci si deve mai fidare.


Didascalie immagini:
- L’occhio alato di L.B.Alberti
- Tav. IX delle Carceri di G.B.Piranesi