Leon Battista Alberti tra antichi e moderni

Articolo per la rubrica "L'architettura dopo la Storia" per "il Quotidiano del Sud"

Pier Giuseppe Fedele | Sabato, 27 Giugno 2020

«Andrà giudicato appartenente ad una rara categoria di uomini chiunque sarà capace di proporre argomenti nuovi, mai toccati prima e fuori dal senso comune e dalle aspettative del pubblico.». Così scrive L.B. Alberti nel suo “Momus o De Principe” (1450). Questa affermazione di principio, se presa fuori contesto, indicando la novitas come valore e obiettivo del fare estetico, può condurre fuori strada. Oggi è sotto gli occhi di tutti che il fare destinato alla sola novitas non può che svuotare di significato l’architettura, riducendola - come fa - a sola immagine. Ma l’architettura è di più. Se cerchiamo ancora, seguendo i passi dell’Alberti nel suo “De commodis litterarum atque incommodis” (1428), leggiamo: «sembra infatti che qualunque cosa noi troviamo scritta dagli antichi abbia lo scopo di liberarci dagli errori, e farci giungere alla verità ed alla semplicità». Si comincia così a chiarire che il moderno si dà a partire dagli antichi, e che il grande Umanista inserisce le fatiche dell’architetto dentro la dialettica tra antichi e moderni. E’ la visione di un moderno che si caratterizza per essere ‘soglia’, e così sarà anche nei secoli a lui successivi, dal ‘700 passando anche per le avanguardie (il concetto di sradicamento radicale ha sempre avuto vita breve), fino alla nostra contemporaneità. Una dimensione dialettica ancora oggi viva, che ha trovato soluzione solo nelle opere-sintesi apparse lungo la modernità realizzata (le opere di Mies van der Rohe, per e., rientrano appieno in questa idea di opera-sintesi). Alberti assume il principio di autorità degli antichi ponendolo in dialogo con le spinte che provengono dal presente; potremmo dire, a suon di metafora, che all’architettura egli assegni una strada sopra i due poli individuati. Di fronte allo smodato e sradicato desiderio di novitas muove la sua critica individuando una novitas positiva e una novitas negativa: la novitas positiva spinge in avanti la ricerca vera, quella degli antichi («cercheremo di approntare soluzioni nuove e di conseguire una gloria pari alla loro o, se possibile, anche maggiore» - De Re Aedificatoria), mentre la novitas negativa è figlia dell’ “ingens gloria cupiditas” [grande desiderio di gloria] e dell’ “aedificandi libido” [desiderio di edificare], ovvero di due valori la cui natura toglie senso all’architettura. Di fronte a ciò viene indicata - per la figura dell’architetto ma, in effetti, per i moderni in generale - la necessità di uno stare in equilibrio, per non cedere esclusivamente alle sollecitazioni dello sguardo all’indietro, ma anche per resistere alle seduzioni del presente sradicato, figlio solo dell’ego dell’architetto (come accade oggi troppo spesso). Rimanendo tra le righe del grande umanista leggiamo ancora: «e mi dirò soddisfatto se la novità del ritrovato non andrà disgiunta dagli sperimentatissimi criteri delle opere antiche, e se questi d’altra parte saranno ricreati e rinnovati dall’ingegno dell’architetto.» (De Re Aedificatoria). Guardando bene, Alberti assegna all’operare dell’architetto un tempo che non è né il tempo presente né quello passato ma, potrebbe dirsi, un terzo tempo –al di sopra dei due - in cui l’architetto è inteso come figura della soglia. Un tempo in cui ‘passare a contropelo la storia, rovesciarne la forma della vuota durata per sorprendere nella cosa [l’opera architettonica] l’improvviso frattanto di un Sì’ (Cacciari, 1986), dove quel ‘Sì’ è l’opera costruita pensata subspecie aeternitatis. In questa idea di quello che abbiamo definito ‘terzo tempo’ sembrano poter riecheggiare le parole di Rilke: «ecco, le stelle sono un fuoco antico/ mentre i fuochi più giovani si estinguono/ […] / e l’avvenire puramente abbraccia/ le cose più lontane e quelle in noi profonde» (1923).


Didascalie immagini:
- Francesco Rosaspina – Il Tempio Malatestiano in costruzione, 1794.