L’architetto come intellettuale e il valore dell’Idea

Articolo per la rubrica "L'architettura dopo la Storia" per "il Quotidiano del Sud"

Pier Giuseppe Fedele | Sabato, 26 Dicembre 2020

Il processo di molecolare specializzazione che interessa la cultura del nostro tempo spinge, incessantemente, allo svuotamento di sensi e significati ogni prodotto dell’attività intellettuale, riducendo tutto a oggetto di consumo. La visione tecnico-scientifica è, di fatto, divenuta motore in ogni campo del sistema produttivo e dei relativi rapporti di produzione. A causa dell’imperare del Principio Economico ogni cosa è ridotta a mezzo di produzione, e anche il mondo dell’architettura ne è uscito condizionato - è sotto gli occhi di tutti, per chi sa vedere -, al punto da ridurre l’architetto a figura strumentale: viene riconosciuta utilità all’architettura – quasi in ogni dove – se il suo apporto è riconducibile a ‘lavoro tecnico’, a strumento subordinato al principio economico, riducendo così un prodotto dello spirito al principio di utilità, ovvero anch’esso a merce. Già negli anni ’60 emerse, soprattutto in Italia, la crisi dell’architettura e dell’architetto come intellettuale, il cui ruolo si manifestava – in una lettura erede della riflessione Gramsciana sulla figura dell’intellettuale tout-court – sempre più come funzionale al sistema. Emerse evidente, cioè, il «declassamento dell’architettura da Arte ad un insieme coerente e strumentale di operazioni tecniche» (Paci, 1966). L’architettura, a conferma di quelle previsioni, è oggi divenuta espressione della tecno-scienza; l’architetto, con le sue ‘prestazioni professionalistiche’, è ridotto a supporto del sistema, in sua dipendenza funzionale. Nel meccanismo del lavoro specialistico, con tutte le sue griglie e nelle dinamiche di produzione del progetto assimilabili al fordismo industriale, sotto l’ombra di sempre più invadenti sistemi di produzione (software) orientati alla super-produttività, si è ridotto quasi allo zero lo spazio di quella eccedenza che è insita nella definizione stessa di ‘progetto’ e che attiene esclusivamente alla dimensione dell’Idea. Eppure è in quella eccedenza che risiede ancora l’unico spazio di libertà dell’architettura, ovvero la possibilità di poter superare il programma ‘assegnato’ dagli ambiti con il quale egli si relaziona – ricerca tecnologica, istituzioni, quadro legislativo, corpus teorico disciplinare, committenza, maestranze, fornitori, ma anche editoria, media, ecc – così da poter spingere in avanti il ‘così come è’ (lo status quo), piuttosto che registrarlo soltanto. È nella dimensione Politica del fare architettura, è nella de-cisione (che significa: tagliar via) quale atto eminentemente politico, che risiede la possibilità di proteggere – resistendo - lo statuto disciplinare tale da produrre quel superamento della crisi individuata con chiarezza negli anni ‘60, nelle tesi delle diverse figure di primo piano del mondo della critica dell’architettura (Rogers e Tafuri su tutti). È sul piano dell’Idea che la ricerca architettonica trova la sua più alta espressione, è nell’Idea l’adesione allo spirito del tempo, e non certo nella adesione allo sviluppo tecnologico in corso (quanti edifici, al loro tempo avanzati tecnologicamente, oggi sono superati, ‘vecchi’?...). La necessaria resistenza contro la subordinazione dell’architettura – cioè alla sua riduzione a mero lavoro tecnico-specialistico - a quelli che Foucault chiamerebbe ancora ‘spazi del controllo’, ovvero agli ambiti che assegnano compiti da assolvere, non è e non può essere un tirarsi fuori per essere contro (questo produce accademismo da un lato e idealismo dall’altro, improduttivi entrambi) ma è e deve essere uno stare «dentro e contro»; resistenza come espressione dell’essere, l’architettura, potenza autonoma ed esercizio critico in difesa di quell’eccedenza - l’Idea - a cui prima si è fatto cenno. La dimensione scientifica dell’architettura che ignori la necessità politica del suo fare (gli specialismi), così come la dimensione politica dell’architettura che ignori quella tecnico-scientifico del suo lavoro (gli idealismi) sono entrambi impotenti – presi singolarmente - a modificare lo status-quo. L’architettura, quella da costruire, dovendo essere alleanza di Scienza e Politica, non può che affidarsi a valori che sempre rimangono fuori dall’operare tecnico-scientifico, per il semplice motivo che quanto nell’ambito scientifico è possibile, può trovare solo in quello etico-politico (cioè estetico) il suo unico fondamento. È necessario cioè scendere nell’agone del reale, trovare un posto nello spazio del conflitto, mettersi in dialogo con gli spazi del controllo e, consapevoli della necessità della de-cisone – tentare la modificazione del percorso imposto o indotto dalle griglie produttiviste, per «ritornare alla cosa».


Didascalie immagini:
- Aldo Rossi – Città Analoga, 1976.