Asplund, il Classico e gli echi del Mediterraneo al nord.

Articolo per la rubrica "L'architettura dopo la Storia" per "il Quotidiano del Sud"

Pier Giuseppe Fedele | Mercoledì, 26 Febbraio 2020

Nell’architettura nulla ha prodotto più echi e risonanze, lungo millenni, come il Mediterraneo. Ma il suo nome – sintesi di numerose culture (egizi, cretesi-micenei, fenici, greci, romani) - nelle arti rappresenta una costruzione mitopoietica appartenente al mondo delle idee, per la quale il Kunstwollen di tanti architetti del passato che hanno guardato al mare-nostrum, trova l’uno in una categoria che sorvola la Storia: il Classico. Nel Moderno (ci riferiamo non certo al moderno che ‘si è voluto’ contrapposto agli storicismi, riducendo la questione a un darwinismo linguistico tutto sovrastruttura), ha ancora senso la domanda che Holderlin si poneva nella sua Arcipelago: ‹‹E dove, dimmi, è Atene? La tua, la più amata città/ sulle urne dei grandi lungo le sacre rive/ o triste Dio, è immersa nella sua cenere? O un segno resta ancora di lei, o forse il navigante/ che l’oltrepassa la chiama per nome, la pensa?››
Gli architetti hanno navigato nel mare-nostrum da sempre, e sempre con esso si sono dovuti confrontare alla ricerca di un fondamento del senso del proprio fare, perché nessun fondamento ha resistito più di ogni cosa agli attacchi del divenire come quello immanente al Classico. Ne è prova la tradizione dei Gran Tour, che ha portato al sud artisti e letterati provenienti dai paesi nordici: Goethe, Winkelmann (finanche il divin Marquise De Sade), Schinkel, Labrouste, Le Corbusier, ecc., venivano in cerca delle risonanze dell’originario, contribuendo alla costruzione dell’idea dell’eterno presente del Classico. Ma Classico non è da intendersi come banale sistema di regole auree dedotte dallo studio dei monumenti antichi da riproporre (ciò sfocerebbe nell’accademismo), né tantomeno come ricerca di una identità legata a una specifica area geografica rintracciabile nelle costruzioni spontanee (ciò sfocerebbe nel vernacolare). Sugli echi del Classico, e non del classicismo (che è la traduzione storicistica del Classico), si fonda il progetto per il Crematorio (1935-40) nel ‘Cimitero del bosco’ vicino Stoccolma, dell’architetto svedese Erik Gunnar Asplund (1885 - 1940) che mette a frutto le risonanze del suo viaggio al sud. Per uno tra i più bei cimiteri al mondo, immerso in una vera e propria foresta, l’architetto progetta un Crematorio il cui atrio – che dà accesso alla chiesa - è uno spazio nel quale ritrova le regole del mondo che guarda all’a-temporale. E’ uno spazio coperto a pianta rettangolare, che conduce alla cappella, delimitato da pilastri quadrati con un foro al centro della copertura, un impluvium di pompeiana memoria. Esso è completamente autonomo rispetto alla cappella, a questa accostata, e ha un’aura alla stregua di un tempio greco. Il Classico è una condizione ideale, una costante linea continua lungo il tempo, con l’obiettivo di sopraffarlo. E’ un non-luogo che si fa oggetto, una guerra al molteplice combattuta con le armi dell’unità; una redenzione dall’ora attraverso la grandezza del Passato; è il tentativo dell’architettura di rendere gli uomini immortali. La buia luce nordica in cui è ambientata l’architettura di Asplund diviene – grazie alle virtù esoteriche del principio dell’armonia del Classico – improvvisamente una luce mediterranea. Il Crematorio vede il mare come i templi di Agrigento, dimostrando che l’Identità mai definitivamente afferrabile del Mediterraneo risuona ben oltre le ‘sacre rive’ che bagna.