L’Altare della buona fortuna di J. W. Goethe

Geometria e filosofia per un’opera di puro pensiero

Articolo per la rubrica "L'architettura dopo la Storia" per "il Quotidiano del Sud"

Pier Giuseppe Fedele | Domenica, 7 Marzo 2021

«È per me un punto comune (agli altri) / quello da cui io abbia a principiare: è di là infatti che / ritornerò di nuovo»: questo dice la dea del poema parmenideo parlando delle «vie della ricerca che sole son da pensare», indicando con chiarezza - ormai millenaria - la via circolare della conoscenza, e la sua immanente dialettica tra inizio e fine ultimo. La necessità di un pensiero originario, pertanto, è a fondamento della nostra civiltà. La Bellezza, in quanto massimo grado di conoscenza del Mondo, percorre lo stesso circolo: è così che la questione dell’inizio diviene ‘il’ problema estetico fondamentale. Proprio in relazione alla circolarità del processo della conoscenza, ogni pensiero è concepibile solo se ‘progettante’: «Perché si dia qualcosa di effettivamente reale occorre che già tali forme siano costituite, occorre presupporle» (Cacciari, 1990). Il pensiero originario è ciò che ‘comincia’ ed esso stesso è ciò che indica la meta. Che la meta dipenda dal pensiero originario significa che non può esserci progetto senza pensiero sul suo inizio, significa che non c’è progetto se quell’inizio non ‘si’ prefiguri già l’«intero ideale» a cui deve giungere. Il pensiero originario è già l’idea-immagine (eidos) della meta. Questo aspetto si verifica (o dovrebbe verificarsi) per ogni invenzione formale, esso è costitutivo e immanente all’atto progettante stesso. È sufficiente questa breve riflessione per far cadere e mostrare l’ingannevolezza di tutte le operazioni formali che si dicono basate sul segno ‘spontaneo’, sul segno come gesto, quelle operazioni che tentano di far passare come gestuale ogni qualsivoglia di-segno architettonico (le architetture di Frank Gehry su tutte; ma nel ragionamento potrebbero entrarci senza forzature anche quelle opere che si fondino sulla ‘messa in scena’ spaziale dei flussi dei percorsi, come è nelle architetture di Zaha Hadid, ecc.). C’è una singolare scultura che mostra questo pensiero con grande semplicità di forma. È l’Altare della Buona Fortuna, disegnato da Johann Wolfgang von Goethe per il suo giardino di Weimar nel 1777. Un manufatto di pietra composto da un cubo su cui poggia una sfera in equilibrio: una forma potente, essenziale, di puro pensiero, in cui tra l’altro la forza simbolica delle forme geometriche utilizzate rende evidente con forza la insondabilità della totalità attraverso le (im)possibilità del ‘dire’. La scultura del più grande scrittore tedesco, grande interprete in bilico tra luce della ragione e forza delle sensazioni, così come accade per le grandi forme che cercano la bellezza, è simbolo geometrico e filosofico insieme: la sfera simboleggia il movimento, il divenire, e il cubo è la perfezione, la verità delle cose, la stabilità e la forza della conoscenza e della saggezza. L’unione della sfera con il cubo è portatrice delle dialettiche fondamentali, quelle dualità in grado di prefigurare l’ideale ‘intero’ a cui tende attraverso il pensiero, incarnato nella totalità del Reale che vuole mettere in forma: totalità celeste/terrestre, materia/spirito, finito/infinito, ecc. La scultura di Goethe è una opera architettonica perché presuppone, grazie a un inizio progettante, una meta chiara - così come accade per l’architettura che vuole mostrare la stessa totalità del reale attraverso le sue forme espressive assoggettate alle leggi della costruzione. Nel definire una forma, essa lotta con la Necessità e cerca di vincerla, e quando la vince produce capolavori. L’espressione architettonica non può che essere figlia di una posizione filosofica pre-meditata, il suo è uno sguardo pensante sulla realtà in vista di una finitezza che indichi e alluda a un ‘intero’ ideale, appunto. L’atto stesso di dover de-finire una forma implica (deve implicare) una scelta originaria e la scelta di un preciso metodo espressivo, come è per l’Altare della Buona Fortuna di Goethe, segno di quell’intero che ‘vede già’, inizio come seme della meta. L’inizio inteso in questo senso, ovvero come solo è possibile intenderlo, è già un itinerario progettuale. Il Fine, quello che abbiamo chiamato meta, non può che essere «la visione del perfettamente illatente, della luce del nascimento stesso (physis), dell’istante incorruttibile del nascimento – dunque – di quella luce che, proprio per la sua illatenza, si cela, ha il nascondersi suo proprio». E le forme non posso che essere espressione della nostalgia di quell’inizio, e tentare di renderlo visibile.

Didascalie immagini:
- L’altare della Buona Fortuna nel giardino di Weimar di J. W. Goethe, 1777.