Giorgio Grassi, la logica e gli antichi maestri.

Articolo per la rubrica "L'architettura dopo la Storia" per "il Quotidiano del Sud"

Pier Giuseppe Fedele | Sabato, 30 Maggio 2020

Anche in architettura, come in ogni operare estetico, la forma è il risultato e mai l’obiettivo. La forma è, metaforicamente, una maschera che nasconde la ragione dell’edificio; eppure è maschera che non inganna, quando manifesta con chiarezza e precisione la logica che la sostiene. La perdita del centro – caratteristica strutturale del nostro tempo – ha frantumato i linguaggi dell’architettura, producendo micrologie linguistiche che, con la complicità fuorviante della tecnica, ha finito per mettere in discussione la natura e il senso del fare architettura. Il linguaggio è «fatto a pezzi, in pezzi così piccoli da essere diventato del tutto inutilizzabile». Giorgio Grassi (classe 1935), dagli anni ’60 tenta una rifondazione dell’architettura, sempre più maschera senza volto, coniugando Ragione – nella sua forma di logica - ed Esperienza – così come condensata nella tradizione della manualistica di architettura di tradizione illuminista. Egli rintraccia nel concetto di ‘tipo’ architettonico la possibile dimensione scientifica della composizione architettonica: il tipo «rappresenta quasi l’essenza dell’architettura intesa come traguardo» (La costruzione logica dell’architettura, 1967). Che cosa è il ‘tipo’? Il tipo è la riduzione alle condizioni essenziali delle forme dell’architettura, una volta depurate dalle contingenze del tempo. E’ quindi una condizione ideale a cui riferire la realtà contingente, in vista di una più chiara definizione e leggibilità della forma architettonica; è, cioè, l’individuazione degli elementi di stabilità delle forme. Il tipo, pertanto, è governato dalla Necessità (riguarda la forma e non la funzione), da ciò che è irriducibile e ineludibile; esso è l’elemento primo a fondamento della forma. Ma parallelamente a questo approccio, che potrebbe apparire formalmente e compositivamente riduzionista, Grassi fonda la ragione dei suoi edifici dialogando con gli antichi maestri (L. B. Alberti su tutti), quei maestri che «non si scelgono, che sono lì di fronte a noi, inevitabili e fatali come le loro opere» (Antichi Maestri, 1999). Sostiene la natura riferente dell’architettura, ovvero la necessità di riferire la ricerca compositiva al carattere di generalità degli elementi dell’architettura, definito con progressiva approssimazione lungo il tempo, la cui matrice logica diviene struttura del comporre, sua vera essenza. Le architetture di Grassi percorrono il sentiero della dialettica tra il Necessario – inteso come ineludibile ragione delle cose – e il ‘Come’ dell’esperienza di chi ha già percorso quella stessa strada facendo emergere riflessioni e questioni essenziali dalle quali non è possibile liberarsi («le cose memorabili, quelle che devono essere riportate, sono poche e sempre le stesse»). La compresenza della chiara nudità della forma prima proveniente dal tipo unita all’analiticità del ‘come’ degli antichi maestri, genera un paradosso che diviene poetica: quello di ‘spezzare il nesso di causalità’ (Colli), la irriducibile immanenza di Ananke-Necessità in ogni azione umana e, contemporaneamente, spezzare anche il legame che le forme cercano con il tempo, per togliere la maschera alla forma e vedere il suo ‘oltre’. Alla fine del processo compositivo intorno alla necessità («una volta fissati i pochi essenziali elementi di base, ad esempio nella geometria elementare o nelle forme semplici di un passato remoto fuori dalla storia, il processo è aperto a ogni possibile risultato e conseguenza») le architetture di Grassi, precise e rigorose eppure ricchissime di contenuto, riescono a mostrare che «dove c’è pericolo cresce anche ciò che salva» (Holderlin).


Didascalie immagini:

- G. Grassi – Biblioteca pubblica a Groningen (1989)