Capri, Casa Malaparte: “Casa come me”.

Articolo per la rubrica "L'architettura dopo la Storia" per "il Quotidiano del Sud"

Pier Giuseppe Fedele | Sabato, 14 Marzo 2020

Adolf Loos nel primo numero della rivista Das Andere scrive un articolo dal titolo ‘Das Heim’ (1903). In tedesco Heim è la casa, ed è – significativamente – anche radice di Heimat, che significa Patria. Egli, in polemica frontale con gli estetismi della Wiener Secession, scrive che “chi vuole farsi una casa deve dare personalmente le indicazioni […], nessun altro’. Non è la promozione dell’auto-costruzione contro l’architettura, ma riflessione contro il linguaggio architettonico artefatto frutto di categorie estetiche sovrapposte che portano lontano dal senso dell’abitare. E’ la condizione in cui si trovò Curzio Malaparte per quella che definirà ‘Casa come me’, la sua casa a Capri (1938-1942), dopo aver congedato l’arch. Adalberto Libera - ritardatario (forse non poté o forse non volle) nel consegnare gli esecutivi del suo progetto di casa razionalista -. Ma la legge della contingenza diviene occasione aurea quando l’intelligenza prende il dominio e mira a eternare le azioni umane. Lo scrittore di “La pelle” comprende che in architettura è la ragione della costruzione che determina la forma, in questo caso contaminata dal rifiuto dell’ ‘astrazione e dall’incanto lirico’ (J. Heiduk) di una natura mozzafiato, senza ‘diventarne schiavo’ o ‘lasciarsi stritolare da quelle fauci delicate e violente’ (Malaparte). Nelle mani di Malaparte e del capomastro (‹‹il migliore, il più onesto, il più intelligente, il più probo, fra quanti ne abbia conosciuto››) che lo aiutò nella costruzione-ideazione, lo spazio della casa diviene spazio dell’abitare pro-dotto da una im-mediatezza proveniente da una memoria ancestrale e da una ritualità arcaica. “Fare-spazio è un aprire-liberare luoghi, dove l’uomo si riconosce […]; in tali luoghi egli può vivere, nel felice possesso di una patria” (Cacciari): Heim/Heimat appunto. Ecco l’intelligenza dei due costruttori: nessun stile moresco, nessun stile caprese vernacolare, nessuna colonnina romanica, nessuna finestra ogivale, nessuno di quegli ibridi connubi ma un parallelepipedo rosso pompeiano, poggiato su un promontorio a forma di sella orientato verso l’orizzonte grazie a una geniale scalinata triangolare che conduce al tetto a terrazza che affaccia sul cielo e sul mare, dopo aver superato una parete-quinta curva, posta in quel preciso punto per aumentare il respiro di quella maestosa visione dell’infinito. Solo nella grande architettura si raggiunge una tale concisione, una tale potente espressione in cui forma e funzione coincidono senza tradire affettazione. Centrale per l’interno è il grande salone, che Malaparte chiama ‘atrio’. E’ uno spazio semplice, con intonaco bianco (la luce) e pavimentato con pietre posate a opus incertum (la terra); quattro grandi finestre agli angoli di questo spazio inquadrano, come dei boccascena, lo spettacolo della grandiosa natura fuori. I pochi arredi previsti – tavolo, sedia, una scrivania, qualche libreria per il suo studio – hanno la forza delle figure di Alberto Savinio: Malaparte scopre che anche un oggetto d’uso può farsi portatore di meraviglia, mai essendo solo un significato ma anch’esso sempre un significante. Un cristallo chiude il fondo del camino al centro del salone, inquadra i faraglioni mentre ‘il fuoco danza contro il mare illuminato dalla luna’ (V. Savi), divenendo l’altare di questo sacro spazio domestico, in cui è possibile indiarsi.

 

Didascalie immagini
- Casa Malaparte, esterno e interno, schizzo di Pier Giuseppe Fedele
- Fotogrammi dal film: "Les Mépris" di Jean-Luc Godard, 1963, girato a Casa Malaparte