‘Das Andere’: l’inattualità di Adolf Loos.

Articolo per la rubrica "L'architettura dopo la Storia" per "il Quotidiano del Sud"

Pier Giuseppe Fedele | Sabato, 6 Giugno 2020

Nietzsche descrive la sua scoperta della coscienza della parvenza così: «Che cos’è ora, per me, ‘parvenza’! In verità non l’opposto di una sostanza – che cos’altro posso asserire di una sostanza qualsiasi se non appunto i soli predicati della sua parvenza? In verità non una maschera inanimata che si potrebbe applicare ad una x sconosciuta e pur anche togliere!». (Gaia Scienza, af. 54). Potrebbe essere questo, senza alcun dubbio, la prospettiva e l’orizzonte in cui inserire il discorso sull’architettura di Adolf Loos (1870-1933). La parvenza, ciò che appare visibile, è l’unico luogo in cui si manifesta la sostanza. In architettura, per analogia, la parvenza è la forma della costruzione, ma quella forma – ci dice Loos – è implicita nella materia. Su questa base Loos dichiara guerra a ogni concezione che si discosti da tale principio e che promuova atteggiamenti che, come nel caso dei tatuaggi, si sovrappongano a ciò che è intrinseco ‘nella’ materia stessa del costruire. Ecco il «Das Andere» (l’Altro) che Loos combatte: il disegno come mezzo per inventare linguaggi; il concetto di stile come ricerca di astrazione ideologica sovrapposta all’espressione essenziale; il concetto di sintesi delle arti (l’opera d’arte totale della Wiener Secession) come criterio unificante di epoche diverse; la sovrapposizione dei linguaggi ovvero l’uso di linguaggi non propri dell’oggetto da ‘dire’; ogni forma di estetismo che sfocia nella tautologica ‘forma per la forma’. Quando egli scrive: «Se in un bosco troviamo un tumulo […] ci facciamo seri e qualcosa ci dice dentro di noi: qui è sepolto qualcuno. Questa è architettura» (Architettura, 1910), ci indica che tutto ciò che è finalisticamente ‘destinato’ non può illudersi di dire l’oltre senza sconfessare la propria natura. L’esprimibile ha sempre una propria legge a cui aderire, una sua qualità intrinseca che ne influenza la forma. La volontà di dire ciò che è dietro le cose inventando linguaggi che tentano di dirlo è falsificazione, tradimento del senso, ornamento, perché l’oltre appare al di là dell’immanenza del corpo costruito. Il dicibile in architettura può apparire esclusivamente nella perfetta coniugazione della forma a partire dalle leggi della materia, leggi a questa immanenti. Loos esercita la sua radicale critica attraverso l’unico vero strumento dell’architettura (ma che è, in fondo, quello di tutte le arti) che è la composizione. E’ la composizione lo strumento che permette di ‘dire’, un dire la differenza di senso delle varie parti che compongono la scrittura architettonica. Una composizione quindi che pensa, accetta ed elabora le contraddizioni. Le sue architetture, le sue case, mostrano che vi è un esterno governato e determinato dalle leggi della metropoli e un intérieur che non è governabile da alcuna forma predeterminata ma che si fa spazio per una memoria che è il vero luogo dell’abitare dell’uomo. L’abiura dell’ornamento non cancella la possibilità di dire l’oltre, ma individua lo spazio ove ciò possa accadere (come nell’esempio del tumulo). L’unico vero spazio in cui può darsi esperienza di questo ‘oltre’ - a partire dal necessario - è l’intérieur, che è l’unica faccia di una forma architettonica bifronte che nell’esterno-metropoli non può che ‘tacere’. La sua composizione per “unità tipologiche definite (atrio/tablino/peristilio/oecus/triclinium) ” (Semerani, 2000) guarda alle dimore romane e le traduce nella lingua di una Vienna ‘inattualizzata’. Era lo stesso Nietzsche della Gaia Scienza che aveva scritto: «Non dobbiamo far nuovo per noi l’antico e in esso sistemare noi?» (af. 83).


Didascalie immagini:

- A. Loos – Casa di Tristan Tzara, Parigi 1930 e l’intérieur di Casa Muller, Praga 1930