Mies nel ‘regno delle essenze’.

Articolo per la rubrica "L'architettura dopo la Storia" per "il Quotidiano del Sud"

Pier Giuseppe Fedele | Sabato, 12 Settembre 2020

Esiste un inconscio anche nelle cose dell’arte: il più potente è il Mediterraneo, incarnatosi nell’idea di Classico. Un inconscio in cui le parole, intrappolate per sempre nel corpo del passato, finiscono per divenire ‘non-detti’ attraverso il dire: paradosso del Classico. L’impossibilità di dire l’essenza spinge l’attenzione esclusivamente sul piano della forma. Ma la forma, in quanto significante, pur nella impossibilità di coincidere con i significati, deve potentemente evocare l’essenza ed è con quel potere evocativo che si genera la forza della bellezza. In architettura esistono due possibili letture del mondo Classico. Una è quella che lo storicizza e l’altra che potremmo definire essenziale: la lettura storicizzata si ferma alla superficie, alla dimensione contingente delle forme, un modus operandi che – per dirla con Lacan – viene ‘parlato’ da quell’inconscio, non lo governa ma lo subisce; la lettura ‘essenziale’ è invece quella impegnata nella ricerca costante, perenne, della «determinazione dell’eterno e del contingente» (Colli). L’utilità operativa della Storia, al di là delle sue narrazioni, è nella possibilità di rivelare il contingente – ciò che attiene al caduco, al passeggero – così da poter ri-trovare i «veri momenti eterni». Questi, in architettura, sono nella forma che esprime il senso incontrovertibile dell’atto costruttivo ‘in sé’, cioè quella forma che non esprime alcuna preoccupazione di comunicare altro che sé stessa, alla luce del valore degli elementi che la compongono e della logica della composizione. L’architettura vede l’eterno non quando cerca i suoi valori morali su piani esterni alla cosa, ma quando poggia i suoi valori morali sul piano metafisico: il mondo è «una grande espressione di essenza nascoste e concrete». In un piccolo appunto del 1940 (pubblicato postumo) Giorgio Colli, riferendosi alle pitture del Pollaiolo, scrive che «l’essenziale è per lui di dipingere una pianura immensa che si prolunga nello sfondo all’infinito e continua nel cielo. Questa pianura è la verità ultima delle cose – perfettamente xynòs [continuo], con un colore indicibile che è quello dell’essenza. Guardata da vicino tutto l’individuale rivela questa pianura, fiume, alberi, colline – ognuna di queste cose è entelecheia [realtà], ma fusa e collegata nel tutto, inscindibile da esso. Il paesaggio non è fenomenico – nelle pianure che noi vediamo gli alberi vivono indipendentemente dai prati che stanno loro attorno, ogni individualità vive isolata.». Mies van der Rohe si è spinto più di chiunque altro in questo regno delle essenze. Egli ha sgombrato i suoi occhi da qualsiasi influenza dello sguardo ipnotizzato dalla narrazione della Storia, alla ricerca di ciò che è dietro gli elementi dell’architettura e della composizione architettonica di tutti i tempi. Le sue grandi aule sono eredi del Telesterion di Eleusi, del Pantheon, di Santa Sofia in Costantinopoli, dei vasti spazi collettivi della Storia, così come le sue case a corte sono eredi della casa Pompeiana. Perché il problema della composizione architettonica è lo stesso da sempre: la ricerca delle «forme necessarie» (Monestiroli, 1984) e dello «spazio universale» (Capozzi, 2020). È così che dal mondo delle necessità si sale verso quello dell’Idea e, con moto discendente, l’Idea scende nel concreto reale. Come scrisse Hilberseimer nel 1956, con grande chiarezza, «la sua architettura, sebbene dipenda dalla struttura, è molto di più che struttura. La sua architettura nasce dalla struttura, ma attraversa il mondo della materia per giungere nel regno dello spirito». Il regno dello spirito a cui allude Hilberseimer nel suo pensiero su Mies, è quello sgombro da qualsiasi accenno alla intenzione individuale del soggetto fautore dell’opera. Qualsiasi presenza – o anche ombra – della intenzionalità dell’autore dell’opera architettonica è formalismo, quel formalismo a cui i grandi maestri dell’architettura del ‘900 hanno dichiarato guerra sin dalla prima ora: «formalismo significa fare del telos-fine dell’opera un prodotto dell’intenzione dell’autore» (Cacciari, 1988). Il regno dello spirito è il regno delle essenze. Ciò che si (ri)evoca di quel regno, nella forma della cosa, non è né soggetto né oggetto, perché essi non possono che essere ‘mediati’. L’essenza è im-mediatezza, nel senso appena indicato: ecco il piano di ricerca architettonica su cui Mies van der Rohe muove i suoi passi, una lotta al formalismo per liberare l’architettura dalle incrostazioni formalistiche ottocentesche, per far luce sul ‘ciò che è’, al di là di qualsiasi ‘discorso’ proveniente dall’esterno. L’espressione di quell’im-mediato è la sua rievocazione. Essa mina due aspetti: da un lato ogni forma di intenzionalità soggettiva dell’autore dell’opera, indicando la vacuità di qualsivoglia “volontà di stile” e dall’altro le esigenze rappresentative della Tecnica, intesa nella sua accezione (e quale se no?) di manifestazione tecnico-economica dei contemporanei rapporti sociali. È, questa strada, una critica radicale al contingente che assume l’aspetto del formalismo, una sorta di anamnesi per risalire all’Inizio, il perenne tentativo di ‘ritornare’ all’arché. Da questa profondità Mies si muove verso la definizione degli spazi architettonici: i grandi edifici ad aula “chiamati a competere sul piano del loro senso e della forma con antiche architetture” (Bisogni, 1998) divengono spazio im-mediato, incondizionato, senza alcun significato che non sia la costruzione stessa, dove l’apparente neutralità funzionale in realtà presuppone e contempla ogni possibile funzione, le contiene tutte. La natura di questo spazio così determinato finisce per alludere allo spazio illimitato, a un ‘oltre’ in cui la materia che determina la forma è la luce. Nelle architetture di Mies si assiste a un apparente paradosso: le categorie dell’architettura Classica, ovvero Ordine Proporzione e Decoro (la cui sintesi è l’Armonia), divengono gli strumenti che permettono una disarmante modernità, disarmante perché antica, certamente inattuale nel suo significato più profondo. È lo spazio il soggetto e l’oggetto (in uno) della costruzione, e mai il suo autore né il tempo contingente con i suoi caduchi rapporti. La intellegibilità e la chiarezza del sistema strutturale – insieme alla sua anonimìa - diviene la forza capace di produrre lo spazio infinito-apeiron, il punto più avanzato mai raggiunto in architettura, che contiene passato e futuro insieme, entrambi ‘nella’ sua luce. Una luce che è come l’oro delle icone bizantine, una luce che rende ‘Uno’ la molteplicità delle cose del mondo, in cui tutti possono ritrovarsi, riconoscere la Verità e - finalmente di nuovo - riconoscersi. Un ritorno alla “cara patria” (Ulisse), mosso dalla stessa identica domanda di sempre: «C’è un altro sole, al di là del sole dello spirito, da preferire al sole visibile?» (Plotino).


Didascalie immagini:
- Mies van der Rohe
- Mies - Schaefer Museum, Schweinfurt, Germania – Prospettiva interna, 1960-63.
- Mies – Neue Nationalgalerie, Berlino, 1968.