La lezione di Mies sui tre elementi essenziali dello spazio architettonico

Articolo per la rubrica "L'architettura dopo la Storia" per "il Quotidiano del Sud"

Pier Giuseppe Fedele | Domenica, 25 Aprile 2021

Il superamento della forza seducente dell’apparenza a favore del legame tra espressione e conoscenza è ciò che ha mosso i fondatori della nostra civiltà, la sapienza greca. Il famoso enigma dei pidocchi, che Aristotele riprese da un antichissimo racconto, secondo il quale alcuni marinai esposero ad Omero il seguente enigma: «Quanto abbiamo preso l’abbiamo lasciato, quanto non abbiamo preso lo portiamo», è ciò che fece trovare la morte a Omero, proprio a causa della sua incapacità di ‘vedere’. È un po' quanto accade ogni volta che, nell’analizzare una architettura, non riusciamo a vedere quanto è essenziale e proiettiamo su di essa significati che sono fuori dall’essenza di quell’oggetto. Il racconto infatti narra che Omero, non riuscendo a vedere nella sostanza l’immagine che aveva davanti non capì che i marinai parlavano dei pidocchi che avevano preso e uccisi facendoli cadere, mentre quelli che non erano riusciti a prendere li portavano nelle vesti. Questo accade anche di fronte all’architettura. Quando si pensa a un qualsiasi oggetto dal punto di vista estetico, è necessario determinare la precisa configurazione di tutti gli elementi che concorrono a dare forma al significato di cui quell’oggetto è portatore. La forma visibile, ciò che appare, deve essere frutto di un processo di conoscenza che mostra il significato dell’oggetto. Se l’architettura non può che essere costruzione (tutti i tentativi fatti nel 900 che affrontavano strade diverse da questa, si sono rivelati essere vittime della storicità dei linguaggi, vera e propria ‘caduta’ del linguaggio nella morsa del Tempo), gli elementi che danno forma all’oggetto architettonico devono concorrere alla definizione dell’unità di significato, che deve a sua volta mostrarsi con chiarezza. La ricerca della giusta forma è quindi un percorso di conoscenza che conduce all’oggetto architettonico. Il problema gnoseologico coincide cioè – sul piano estetico - con il problema dell’espressione. Questo ultimo aspetto mostra l’equivocità del problema della rappresentazione se affrontato come oggetto dell’operazione estetica, cioè se preso in sé come obiettivo (ne abbiamo tutti facile cognizione guardando le architetture prodotte dai regimi totalitari, il cui obiettivo è la propaganda messa in rappresentazione, e non lo spazio in sé). L’espressione del significato può avvenire solo attraverso la chiara individuazione degli elementi sostanziali della forma-edificio; determinare una forma architettonica significa pertanto mettere ordine tra gli elementi o, meglio, far emergere la ragione di ogni singola parte, secondo necessità, rispetto al tutto. Ecco perché dopo secoli è riemersa, in alcuni capolavori del novecento, la riflessione sugli elementi fondamentali dell’architettura antica: il piano basamentale, i pilastri e il tetto-copertura. Questa riduzione della complessità della costruzione di un edificio a poche parti non è elementarismo (men che meno minimalismo), ma ricerca sofisticatissima della forma appropriata di un edificio in vista della chiarezza del significato. Tutta la ricerca di Mies van der Rohe, esemplare sotto questo punto di vista, in particolare del periodo americano - con la sua chiara individuazione del problema già nel ’29 con il Padiglione di Barcellona -, ha riguardato la definizione di queste fondamentali parti dell’architettura. I suoi edifici ad aula (Halle) sono il continuo tentativo di definire con sempre maggiore chiarezza la natura dei tre elementi che determinano uno spazio architettonico. Spazio architettonico rimasto – nella sua essenza - ancora insuperato sul piano della modernità, se non ci si vuole abbandonare alla seduzione delle sole immagini. La lezione di Mies è la sintesi di tutta la cultura dell’occidente sin dalla sua fondazione. È per questo che arrestandosi, come ormai accade spesso, alla sola forza seduttiva delle immagini, la nostra civiltà muore ogni volta.


Didascalie immagini:

- Mies van der Rohe: Bacardi Office, Santiago de Cuba 1957-60