Aldo Rossi e l’architettura ritrovata.

Articolo per la rubrica "L'architettura dopo la Storia" per "il Quotidiano del Sud"

Pier Giuseppe Fedele | Sabato, 11 Aprile 2020

Le grandi architetture rifuggono sempre l’atto linguistico in sé, non scambiano mai il mezzo con il fine. Il linguaggio può avvicinarsi alla cosa pensata, ma mai coincidere. È per analogia che si può indicare l’idea (idea significa forma, immagine), ma mai esprimerla del tutto. In architettura, il mondo dell’analogia par excellence è quello di Aldo Rossi (1931 – 1997). Autore di uno dei più letti trattati di architettura del ‘900 (L’architettura della Città, 1966), che incarna uno spirito scientifico ‘puro’, lontano dalle ricerche impotenti a muovere la realtà, mosso da uno spirito scientifico ‘in cerca ‘di’, da una ricerca intenzionale come è la vera ricerca scientifica. Rossi è stato colui che, posseduto dal dàìmon dell’Analogia (Savi, 2003), si è avvicinato meglio di tutti – nel secondo novecento - alla ricerca di una identità dell’architettura italiana («l’identità è anche una scelta»). Nelle sue architetture cerca con un balzo in avanti, ma in realtà già presupposto nella sua ricerca scientifica, la sintesi formale dei segni che compongono il paesaggio immaginario dell’architettura, raggiungendo la dimensione metafisica e metastorica di quel patrimonio formale. È una ricerca che ‘toglie la parola’, rende «muti» gli elementi dell’architettura che parlano della contingenza: le forme che trova - «come degli object trouvé» (Arìs, 2005) della storia -, ancorate nella tradizione del costruire, sono ciò che rimane e ciò che di esse si salva dopo che la Storia ha percorso le sue strade. I suoi edifici sono metafisici nel senso che costruiscono scene senza un luogo specifico (architettura come «scena fissa delle vicende dell’uomo») a partire da un vocabolario formale in cui ogni elemento o parte è indipendente dal tempo («non vi è tempo nell’architettura») e dalla sua funzione iniziale. Ogni elemento dell’architettura tende, nelle sue mani, all’immaginario di quella cosa, mai alla cosa stessa. Ed è così che quell’elemento si sposta sul piano del simbolico, al punto da diventare segno di appartenenza identitaria di una Cultura («è certo che la patria può essere solo una strada o una finestra», scriveva, dove patria sta per ‘identità’). Emerge un paradossale disinteresse al problema dell’avanzamento del linguaggio (significativamente Rossi indicava tra i suoi maestri d’elezione Adolf Loos addirittura insieme a Mies van der Rohe! - Autobiografia Scientifica, 1981), al punto da avere il coraggio (indifferenza) – dopo la stagione delle Avanguardie storiche, che non ha risparmiato nessuno dai suoi pregiudizi rispetto ai linguaggi storicisti – di riutilizzare, in vista del senso della costruzione, linguaggi e forme dismesse. Questo coraggio poetico gli permetteva di poter affermare - in occasione del progetto per un Campus universitario a Miami (1986) -, a proposito dell’aula pubblica per conferenze: «vi costruirò un piccolo Pantheon»; oppure di riproporre (ritrovare…), per il progetto del Quartier Schützenstraße a Berlino (1997), la facciata tal quale del palazzo Farnese di Antonio da Sangallo e Michelangelo di Roma. C’è chi ha visto una sottesa malinconia nelle sue architetture (Schully, 2009), forse sollecitato dai suoi bellissimi disegni, ma in quella non v’è nulla della immobilizzante nostalgia: è la malinconia insita in Mnemosyne, la dea della memoria protettrice delle Muse, quella tensione che si genera nel rammemorare l’archè di un agire, nel voler ri-presentare – instancabilmente - il «facere» dell’architettura come atto costruttivo finalizzato al teatro della vita.


Didascalie immagini:
- Aldo Rossi, Quartier Schützenstraße, Berlino 1997