John Soane e l'essenza dello spazio domestico

Articolo per la rubrica "L'architettura dopo la Storia" per "il Quotidiano del Sud"

Pier Giuseppe Fedele | Sabato, 10 Ottobre 2020

«Non mi seguono stelle in corteo, in me racchiudo l’essere e il conoscere»: così Wallace Stevens descrive l’angelo necessario che ci porta oltre l’orizzonte della realtà. L’angelo è metafora della capacità della nostra mente di vedere oltre la Storia che, nel suo farsi, è sempre contingenza. Ma la tensione verso quell’oltre non deve mai essere negazione della realtà, perché «non vi è né un al di qua né un al di là, ma solo una unità immensa», quindi «con un sentimento puramente, profondamente, beatamente terrestre bisogna introdurre le cose viste e toccate quaggiù in un cerchio più ampio, nel più ampio di tutti. Non in un al di là, la cui ombra oscuri la terra, ma in un tutto, nel Tutto» [Rilke, Lettera a Witold von Hulewicz, 1925]. Nel sincretismo storicistico che si manifesta nella sua famosa casa, John Soane (1753 – 1837), al n. 13 di Lincoln’s inn Field a Londra, genera questo paradosso: nell’accumulazione degli oggetti provenienti dalla Storia dell’architettura e delle arti di molti secoli messe sullo stesso piano, racchiude – come nelle parole di Wallace – conoscenza ed essere. ‘Conoscenza’ in forma di frammenti di tempo posti su uno stesso piano ed ‘essere’ rintracciabile nella unità di visione di quell’accumulazione. La casa di Soane – al di là della pittoresca intenzione dell’architetto di pensarla come un rudere che veniva scoperto - è una rappresentazione teatrale dell’universo architettonico. La facciata con la sua loggia in pietra di Portland conclude, sullo spazio urbano sul quale si affaccia, una successione di spazi interni lungo i quali sono messe insieme opere d’arte (vere e false) di epoca egizia, greca, romana, rinascimentale in una moltiplicazione di senso capace di produrre uno sguardo d’insieme della storia dell’arte, e quindi capace essa stessa di concorrere alla costruzione di ‘quella’ visione d’insieme. Una forma di collezionismo quello di Soane, al limite dell’archeologismo, in cui egli intendeva non solo rappresentare sé stesso, come deve accadere in ogni spazio domestico, ma anche in bilico – per dirla con Benjamin - sull’abisso dei ricordi, i suoi ricordi: «qualsiasi ordine è, proprio in questi ambiti, null’altro che stare sospesi sopra un abisso». Interni come autobiografia, una delle prime testimonianze di un modo di parlare dello spazio domestico come un non parlar altro che di sé stessi, unico spazio possibile per questo tipo di ‘discorso’. Uno ‘spazio del raccolto’, im-produttivo, fuori cioè dalla mentalità produttivista della cultura mercantile. I feticci di Soane, custoditi in quegli interni, sono la costruzione di un possibile ordine – tra i tanti possibili – nel caos dei frammenti che ci arrivano dalla Storia. Separazione netta, quindi, tra esterno e interno, tra città e spazio domestico, così come accadrà un secolo dopo nelle architetture di Adolf Loos. Nessuna trasparenza possibile tra le due dimensioni, nessuna condizione di permeabilità tra la natura dei due spazi, ma differenza che sottolinea il portato simbolico del linguaggio degli interni, rispetto ai contenuti ‘sociali’ dell’operare nella città. Le ‘incrostazioni’ delle pareti si sovrappongono all’architettura di quegli interni, la celano a favore di un discorso sulla Storia che va oltre l’assetto museografico di quegli interni, per conquistare - e consegnare - una libertà interpretativa capace di generare pensiero d’insieme sulla Storia e, quindi, riflessione profonda sul nostro essere. Siamo noi, leggendo l’ “autobiografia di pietra” di Soane, ad avere la possibilità di leggerci.


Didascalie immagini:
- La casa di John Soane a Londra (1837).