Articolo per la rubrica "L'architettura dopo la Storia" per "il Quotidiano del Sud"
Il processo di molecolare specializzazione che interessa la cultura del nostro tempo spinge, incessantemente, allo svuotamento di sensi e significati ogni prodotto dell’attività intellettuale, riducendo tutto a oggetto di consumo. La visione tecnico-scientifica è, di fatto, divenuta motore in ogni campo del sistema produttivo e dei relativi rapporti di produzione. A causa dell’imperare del Principio Economico ogni cosa è ridotta a mezzo di produzione, e anche il mondo dell’architettura ne è uscito condizionato - è sotto gli occhi di tutti, per chi sa vedere -, al punto da ridurre l’architetto a figura strumentale: viene riconosciuta utilità all’architettura – quasi in ogni dove – se il suo apporto è riconducibile a ‘lavoro tecnico’, a strumento subordinato al principio economico, riducendo così un prodotto dello spirito al principio di utilità, ovvero anch’esso a merce. Già negli anni ’60 emerse, soprattutto in Italia, la crisi dell’architettura e dell’architetto come intellettuale, il cui ruolo si manifestava – in una lettura erede della riflessione Gramsciana sulla figura dell’intellettuale tout-court – sempre più come funzionale al sistema. Emerse evidente, cioè, il «declassamento dell’architettura da Arte ad un insieme coerente e strumentale di operazioni tecniche» (Paci, 1966). L’architettura, a conferma di quelle previsioni, è oggi divenuta espressione della tecno-scienza; l’architetto, con le sue ‘prestazioni professionalistiche’, è ridotto a supporto del sistema, in sua dipendenza funzionale. Nel meccanismo del lavoro specialistico, con tutte le sue griglie e nelle dinamiche di produzione del progetto assimilabili al fordismo industriale, sotto l’ombra di sempre più invadenti sistemi di produzione (software) orientati alla super-produttività, si è ridotto quasi allo zero lo spazio di quella eccedenza che è insita nella definizione stessa di ‘progetto’ e che attiene esclusivamente alla dimensione dell’Idea. Eppure è in quella eccedenza che risiede ancora l’unico spazio di libertà dell’architettura, ovvero la possibilità di poter superare il programma ‘assegnato’ dagli ambiti con il quale egli si relaziona – ricerca tecnologica, istituzioni, quadro legislativo, corpus teorico disciplinare, committenza, maestranze, fornitori, ma anche editoria, media, ecc – così da poter spingere in avanti il ‘così come è’ (lo status quo), piuttosto che registrarlo soltanto. È nella dimensione Politica del fare architettura, è nella de-cisione (che significa: tagliar via) quale atto eminentemente politico, che risiede la possibilità di proteggere – resistendo - lo statuto disciplinare tale da produrre quel superamento della crisi individuata con chiarezza negli anni ‘60, nelle tesi delle diverse figure di primo piano del mondo della critica dell’architettura (Rogers e Tafuri su tutti). È sul piano dell’Idea che la ricerca architettonica trova la sua più alta espressione, è nell’Idea l’adesione allo spirito del tempo, e non certo nella adesione allo sviluppo tecnologico in corso (quanti edifici, al loro tempo avanzati tecnologicamente, oggi sono superati, ‘vecchi’?...). La necessaria resistenza contro la subordinazione dell’architettura – cioè alla sua riduzione a mero lavoro tecnico-specialistico - a quelli che Foucault chiamerebbe ancora ‘spazi del controllo’, ovvero agli ambiti che assegnano compiti da assolvere, non è e non può essere un tirarsi fuori per essere contro (questo produce accademismo da un lato e idealismo dall’altro, improduttivi entrambi) ma è e deve essere uno stare «dentro e contro»; resistenza come espressione dell’essere, l’architettura, potenza autonoma ed esercizio critico in difesa di quell’eccedenza - l’Idea - a cui prima si è fatto cenno. La dimensione scientifica dell’architettura che ignori la necessità politica del suo fare (gli specialismi), così come la dimensione politica dell’architettura che ignori quella tecnico-scientifico del suo lavoro (gli idealismi) sono entrambi impotenti – presi singolarmente - a modificare lo status-quo. L’architettura, quella da costruire, dovendo essere alleanza di Scienza e Politica, non può che affidarsi a valori che sempre rimangono fuori dall’operare tecnico-scientifico, per il semplice motivo che quanto nell’ambito scientifico è possibile, può trovare solo in quello etico-politico (cioè estetico) il suo unico fondamento. È necessario cioè scendere nell’agone del reale, trovare un posto nello spazio del conflitto, mettersi in dialogo con gli spazi del controllo e, consapevoli della necessità della de-cisone – tentare la modificazione del percorso imposto o indotto dalle griglie produttiviste, per «ritornare alla cosa».
Didascalie immagini:
- Aldo Rossi – Città Analoga, 1976.