EdA - Esempi di Architettura
Sul Razionalismo, la Critica ha vissuto sotto l’ombra del pregiudizio secondo il quale la tensione verso l’astrazione degli Universali fosse volontà ferrea di ignorare, come una sorta di azzeramento, la strada che la Storia aveva sin lì percorso. Nessuna astrazione, nessuna metafisica, può staccarsi dal Reale (non potendo essere anch’essa altro che Rappresentazione), pena la sua in-fondatezza. Pertanto, si può asserire che se il Razionalismo ha significato una grande pagina della storia dell’architettura, ciò è stato possibile grazie alla sua fondatezza, o meglio, al suo fondamento: la [sua] memoria. Qui, il termine memoria è sempre inteso in senso esclusivamente extra-linguistico. La memoria – in quanto archè di ogni fare nell’ambito estetico - è l’arché dell’architettura della Ragione. L’architettura – anche nel caso del Razionalismo - ritorna a pensare sempre la sua arché. Le Corbusier, Mies van der Rohe, Hilberseimer, e tutti i grandi Maestri razionalisti, hanno sempre mirato al superamento delle condizioni contingenti che produssero le loro opere, alla ricerca dei principi compositivi e architettonici memori della grande lezione della Storia: edifici aule, recinti, pilotis, parte di città come unità architettonica definita, ecc.
Il logos architettonico è cioè sempre stato inteso come strumento di separazione dell’indistinto soggetto/oggetto della Realtà fenomenica, a favore dell’espressione dei principi a-temporali, per rendere oggetto la cosa. Generandosi un singolare paradosso: l’oggetto architettonico guardando genealogicamente al suo passato, non guarda né indietro né avanti, ma ‘è’. Nominando ‘memoria’ non si vuole qui proporre – né restaurare – alcun ‘principio di autorità’ del passato, ovvero determinare una funzione analoga a quella che ebbero gli ordini classici per tanta parte della grande Architettura del passato. Sarebbe un errore pensare alla dimensione fenomenica dell’architettura. Ci si riferisce qui, cioè, all’essenziale di quei fenomeni; ciò che è nel sottosuolo del pensiero storicizzato dagli ‘ismi’, perché è con piglio da progettista che si sta affrontando il tema. E’ al fondamento, a ciò che non muta che la memoria riporta, nell’obiettivo di voler superare il limite che il linguaggio pone all’esercizio compositivo-progettuale; al senso di ogni architettura, che è l’espressione degli immutabili, di ciò che permane, nella costruzione dello spazio, nel tempo: “costruzione e significato sono tutt’uno”. Il passato de-storicizzato è in fondo il tema del Classico tout-court, inteso cioè come categoria metastorica, in grado di superare i modi legati alla contingenza; per mirare - attraverso il necessario da cui l’architettura viene mossa – al ‘’ciò che è’’. La declinazione italiana del Razionalismo architettonico ha radici in questo modus operandi: Terragni, Libera, Gardella, Albini, furono mossi dalla possibilità di de-storicizzare le forme del passato immemorabile dell’Architettura, spinti da quel pathos del ‘nascosto’ che sostiene la immutabile validità delle architetture della Storia. Quel ‘nascosto’ che, in architettura, è la verità della cosa che ha per tramite la singolarità del fenomeno-edificio: il progetto, qui si va sostenendo, è <<anamnesi dell’immemorabile>>. Il fondo della verità viene offuscato dalle appropriazioni ermeneutiche, fino a esserne sommerso, con gli strati ulteriori di sempre nuove comprensioni della Tradizione. Si sta sostenendo qui che l’immemorabile arché è la ragione prima divenuta, oltre il tempo, il permanente dell’architettura. Immutabile che è risultato invincibile, oltre la temporalità, perché fondato sul necessario. Emanuele Severino, sull’essenza contemporanea dell’epistéme, scrive:
Tu neghi ciò su cui ti fondi. Tu sei la prima evocatrice del divenire, ma al tempo stesso, cancelli il divenire, evocando, in quanto epistéme dell’eterno, la Legge a cui tutto deve sottostare. Cancelli la suprema evidenza del divenire. Cancelli ciò che anche per te – come per me – è l’evidenza suprema
Il concetto di memoria non è un ritorno al passato, ma il recupero del senso dello spazio, liberato da ciò che lo copre, dalla sua dimensione corticale. E’, credo, nel concetto di espressione – rispetto a quello di rappresentazione -, il senso di questa sostanziale caratteristica del nostro operare. Si propone qui una intersezione dei concetti espressi nella Filosofia dell’espressione di G. Colli con il nostro operare. Si ha rappresentazione sempre e solo in assenza della cosa rappresentata. È pertanto – la rappresentazione – una forma dell’astrazione. Ma ci sono due tipi di astrazione: quella che si basa su continui approfondimenti del ‘discorso’ specialistico – staccandosi progressivamente dal dato di partenza (sebbene lo presupponga), fino a perderne le tracce e a prendere strada propria; e quella - che interessa il nostro lavoro –che deriva dall’originario im-mediato e che appunto sta in esso. Qui propongo cioè di intendere l’im-mediato - in architettura – come il principio fondativo, come archè (comando/cominciamento), a fondamento cioè della forma dello spazio, del suo senso, della sua radice. In una esaustiva definizione di arché, Colli lo definisce: “il principio , in quanto proiezione astratta sconfinante – come esigenza – nell’immediato” Ecco perché si deve parlare di repræsentatio in luogo di rappresentazione: la repræsentatio è in presenza della cosa, a differenza della rappresentazione. In architettura non può non esserci la cosa, e non può non esserci fondamento; si otterrebbe solo formalismo. L’espressione del principio, per tramite della memoria, ovvero l’operazione di anamnesi, ci permette di superare le categorie storicizzate, in vista dell’eterno “uguale”, in vista dell’unico valore che realmente incarna e manifesta la grande architettura di tutti i tempi, che è quello sovra-storico. Pertanto, sotto questa luce, non c’è – ed è il cuore della tesi che qui si propone – differenza alcuna, per esempio, tra le grandi aule che la storia ha prodotto duemila anni fa e quelle più recenti; e ciò vale per ogni tema architettonico.
Esperienze di architettura
Una casa a tre corti
Mies van der Rohe è, tra i moderni, colui che ha più direttamente manifestato grande interesse sulle radici prime dell’architettura, sul passato immemorabile di cui parliamo. La sua battaglia al formalismo (alle parole dell’architettura, alla sua contingenza), la sua riflessione sull’architettura come costruzione, i suoi progetti, sono un lavoro teso a cercare la Natura di ogni singolo tema architettonico, e quindi la sua Necessità e la legge che lo governa. L’esempio più immediato sono i progetti delle case a patio. La riflessione sul senso dell’abitare che si s-vela osservando la sua Casa a tre corti dà la misura del nesso, dell’equilibrio tra la Necessità di una cosa e la sua Natura. Qui Mies parte (ma sarebbe – per quanto sopra scritto – più giusto dire raggiunge) dalla più antica tipologia della casa dell’uomo, consistente in una serie di spazi funzionali (gli spazi destinati al riparo) intorno a uno spazio da cui prendere luce. Le antiche case Greche con i loro peristili, la Domus pompeiana, le antiche case a corte della grande Cina, le case giapponesi (ecc.) sono tutte testimonianze del rapporto tra la Natura e la Necessità dell’oggetto architettonico. Mies supera quell’Inizio a cui pensa perché lo raggiunge, lo ri-trova. Ri-presentandolo, ne ripresenta il senso della cosa, la esprime. E’ lì che risiede la suprema legge della Necessità dell’architettura. Il patio è uno spazio soggetto al passaggio del giorno e della notte, alle regole dell’esistenza cioè; è, infine, il rapporto con dio. Ma è anche misura dell’uomo, della sua Necessità (funzionale e simbolica). Da questa premessa scaturiscono alcune riflessioni che hanno influenzato il progetto della casa a tre corti che ho progettato per Olbia, in Sardegna. La Sardegna è terra che ha conservato il senso dell’origine. La dimensione cosmogonica è tipica delle culture arcaiche, testimonianza di un rapporto con la Natura che la modernità nelle sue forme esteriori ha celato, ma mai cancellato. Le migliori testimonianze del Moderno hanno riflettuto con grande rigore sul rapporto dell’uomo col sacro: Mies ne è un esempio. La Natura che entra nelle corti delle sue case possiede il senso del ‘sacro’. Portare dentro casa la Natura è fare spazio al sacro, rimettere l’uomo in rapporto con dio, nell’unica dimensione possibile per l’uomo, dopo Nietzsche. È la Realtà immanente all’architettura, ciò che è proprio alla cosa. L’architettura è, così, testimonianza delle leggi dell’esistenza. E’ forse la tipicità del paesaggio sardo che ha generato questa conservazione delle premesse di un popolo. Un paesaggio in cui le forze originarie divengono tensioni in ogni luogo, e che non hanno dato spazio (o in minima parte) alla mitografia di una modernità invasiva e violenta che ha cancellato un po’ ovunque la natura dei luoghi. Singolare è l’esperienza con il paesaggio sardo. Paesaggio come luogo così chiaro, da determinare la forma delle cose. Si provi a guardare con questi occhi le architetture della Civiltà Nuragica, nel loro rapporto con la Natura. Le loro ‘torri del cielo’ (Nuraghes) sono dei ripari megalitici, cellule elementari chiuse all’in-finito/Natura – da cui difendersi - , ma aperti in alto (l’occhio della cupola nuragica) per non interrompere la relazione con le stelle (il dio che protegge…). Una ‘caverna artificiale’ è il Nuraghe, il suo rispecchiamento - se usiamo una terminologia Lukàcsiana -, atto sommamente architettonico perché forma che evoca l’Inizio, la Necessità dell’architettura, il suo passato immemorabile. E’ il senso dell’abitare, che contempla entrambe le Necessità dell’uomo: quella di chiudersi in sé e quella di aprirsi al mondo nella sua totalità. Una consapevolezza arcaica della coincidentia oppositorum. Mi sembra essere questa la radice del carattere dei sardi. In quei paesaggi cosmici, in quelle grandi distese incolte, si attinge la misura delle cose. Cose elementari, che indicano la impossibilità di dire il nesso uomo/natura attraverso il linguaggio; e solo con le cose semplici, elementari, quindi è possibile alludere, indicare un’assenza (il nesso uomo/natura), evocare il passato che sempre esiste. “Non riconoscere le cose semplici, il semplice, significa non toccarle”. Il semplice attiene all’im-mediato, in architettura. La forza dei paesaggi sardi – paesaggi a volte lunari immersi nel sole del mediterraneo - imbriglia anche le tipologie architettoniche successive ai Nuraghes. E’ il caso dello stazzo gallurese, ma anche della casa lolla campidanese. La casa rimane, nella storia delle tipologie dell’architettura sarda, un oggetto elementare che dà conto, dà la misura di quel passato. Il territorio/natura è elemento dal quale non si può scappare; è esso stesso che mette in forma, che ne determina le forme. Si diceva della forza delle cose elementari. Si pensi allo stazzu gallurese, composto da una cellula elementare (la stanza), teoricamente ripetibile - per accostamento - all’infinito, addizioni funzionali che man mano si rendono necessarie; con la sua misura in larghezza determinata dalla necessità costruttiva: i 5 metri della lunghezza massima delle capriate che sostenevano il tetto. Si pensi anche la casa lolla che, in più rispetto allo stazzu, ha una loggia davanti, elemento rappresentativo ma anche funzionale (ripara dal sole). La lolla è soglia, attraverso la quale si passa dalla dimensione sacra della Natura a quella terrena dell’uomo. È simbolo elementare, ma potentissimo. Tutti elementi che prendono forma, relazionandosi, dalla Natura preponderante dalla quale non ci si è mai potuti liberare, per una sorta di riverenza, ma anche di profondo rispetto. La Natura in Sardegna è cosa altra, esterna. Il Moderno vede i valori di questo nesso, e fa uno scatto che porta in avanti la riflessione sull’architettura della casa: ri-porta la Natura dentro la casa, e la mette in dialogo con l’abitare dell’uomo, come all’Inizio. Il patio è questo: è la forza dell’uomo che non teme più la natura, ma ci dialoga, se ne ritaglia una parte, attraverso il gesto fondativo del recinto. Non è un caso, per me, che ci siano in Sardegna decine di chilometri di muri a secco che delimitano porzioni di territorio naturale. È atto fondativo, ma anche di delimitazione di due dimensioni della vita. Sempre un atto di rispetto, comunque, mai una prevaricazione dell’uomo, mai tracotanza (hibris) nei confronti del dio/natura, sempre confronto. Tutte queste riflessioni sono confluite nel progetto della casa a tre corti per Olbia. A esse si è ispirata, alla storia dell’architettura sarda è dedicata, a quei luoghi stupendi, dove è possibile ancora fare esperienza della Natura. Casa progettata nello spirito delle variazioni ammissibili di un tema architettonico, e nella ricerca di un possibile sempre eterno Inizio.
Un edificio per uffici, per un opificio industriale
L’esperienza di Hilberseimer può essere ascritta alla condizione di anamnesi che abbiamo proposto, ma sotto un’altra angolazione. Anche i suoi progetti sono un ritornare alle ragioni prime dell’architettura. Egli ricorre a una essenzialità fondata su un elementarismo volto al recupero dell’essenziale. Tutti i suoi progetti raggiungono – nel realismo più crudo – il più alto livello di astrazione possibile, dimostrando così – come hanno fatto tutti i grandi – che astrazione e realismo non sono termini antitetici, ma assolutamente com-presenti. La vera astrazione, come ha confermato il già citato G. Colli nella sua filosofia, è figlia del Logos Puro, ovvero di quel pensiero che parte dal’im-mediato, raggiunge la vetta dell’astrazione e ritorna – ripresentandolo - a rievocare quell’immediato, in un percorso logico prima ascendente, verso gli universali (l’oggetto astratto), e poi discendente, di recupero dell’immediato. Esso attiene alla Verità, che si fonda sul modo del necessario (o è o non è, aut-aut) di contro al modo del contingente (è e non è, insieme). L’universale raggiunto dalle astrazioni, insomma, è uno svuotamento, uno spogliarsi della contingenza. E il suo ritorno all’im-mediato è l’unica garanzia che abbiamo di rendere non primitiva, contingente, la forma del concreto. Il fulcro unitario di tale dimensione è Dioniso. Non sembri, a prima lettura, un fuori tema quanto sto sostenendo. Nemmeno la citazione di Dioniso riporti a un superficiale ‘nitzschianismo’. Leggiamo Hilberseimer:
Nell’uso linguistico la parola ‘primitivo’ contiene già un giudizio di valore. E sicuramente un valore negativo. Si guarda agli oggetti primitivi con superiorità. In termini di civilizzazione questo è un atteggiamento senz’altro corretto (…), ma nel campo dell’arte il termine ‘primitivo’ viene sempre utilizzato indebitamente (…) Le opere d’arte primitive sono le più pure, perché non ricadono ancora nell’ambizione civilizzatrice della bellezza. Sono libere da tutto ciò che è apollineo [la rappresentazione … (mio)] (…) I cosiddetti popoli primitivi hanno generalmente il più alto grado culturale: unità di principi, volontà e azione. Ciò che il singolo crea, viene realizzato tanto per se stesso che per la collettività, l’umanità. A questa condizione di primordiale fanciullezza, perché pura, si contrappone quella dei popoli civilizzati. La cultura dei popoli civilizzati è caotica. La guida della civiltà, l’educazione, produce ogni sorta di intralcio. Questa nasce dall’individualismo, il singolo uomo, e per questo vi è disaccordo tra il singolo e la comunità (…) Si sostituì la qualità alla quantità. Ciò che è creativo con ciò che è frutto del sapere. Ciò che è spirituale con ciò che è materiale. Si crede di condividere l’interiorità [l’im-mediato… (mio)] tramite il possesso dell’esteriorità (…) La bellezza divenne arte, venne scambiata per arte. La bellezza, che appartiene proprio all’arte applicata. L’essenziale venne messo da parte. La conseguenza fu un insipido Eclettismo (…) Nietzsche rivolse l’attenzione dal sopravvalutato la apollineo dell’arte greca al sottovalutato e disprezzato dionisiaco. Il mondo si spaventò per la barbarie che si era introdotta nella Grecia, presunta così estetizzante. Si comprese, una volta per tutte, il grande valore di ciò che è primitivo in contrapposizione a ciò che è riproduttivo [la representatio…! (mio)]
E’ evidente che qui Hilberseimer pensa al permanente dell’architettura. E non può sfuggire quel “primordiale fanciullezza” che ha echi dell’Iperion di Holderlin, come quel “sottovalutato dionisiaco” nietzschiano. Ecco l’interiorità comparire dai vertici della più alta astrazione raggiunta dall’architettura, ecco Dioniso; ecco la traccia dell’im-mediato colliano. Il tentativo di leggere il logos Razionalista alla luce delle esperienze della Storia, informa anche l’edificio per uffici che ho progettato per un opificio industriale in Fisciano (Sa): una grande stecca di cento metri di lunghezza, in adesione al volume destinato alla produzione, risolta la logica della ripetizione e della eccezione. Una sorta di elementare diagramma fondato sulla organizzazione, oserei dire sull’organigramma dell’opificio. Un diagramma delle funzioni, la cui ragion d’essere della composizione è la presenza ripetuta del modulo-ufficio, per metà vetrato e per metà cieco, interrotta da due elementi eccezionali: due corti-terrazzo destinate allo spazio della convivialità dei luoghi di lavoro, oltre che danno luogo all’esigenza di manifestare la necessità di interfaccia dell’opificio con l’esterno. Un ‘palazzo’, di settecentesca memoria, che tenta di suggerire attraverso la sua misura e la sua forma complessiva, una possibile idea di città da assegnare alle troppo brutte zone destinate agli edifici industriali.
Un edificio residenziale
Il Tema in architettura è la forma del luogo (Monestiroli). Ogni progetto è sulla strada dell’arché: è un rin-tracciare. Un rintracciare, paradossalmente attraverso il linguaggio, la possibilità di superare l’aporia che si genera tra linguaggio ed essenza. Non è rintracciabile alcuna essenza senza il tramite del linguaggio. Il linguaggio allude, nel caso dell’architettura, a far riemergere le tracce, svuotando la cosa dalle incrostazioni che la Storia ha generato quale frutto delle interpretazioni susseguitesi nel tempo. Si può andare oltre questa aporia, costretti – come siamo – a rimanere nel dominio del Logos? Il linguaggio – come abbiamo cercato di sostenere -, allude quindi ad altro. Un altro immemorabile, che non può non essere all’Origine della cosa; e che è sempre generatore di télos. Si recupera così la dimensione evocativa del luogo, la sua forma, cercando le tracce anche nella tradizione architettonica (il suo senso) propria di quel luogo. Ogni tradizione ha sempre la capacità di descrivere la strada percorsa. Questo piccolo edificio residenziale, progettato per Olbia, è il tentativo di riflettere su questa condizione del linguaggio; sulla tragicità di questa condizione di impossibilità di superare il linguaggio in vista dell’essenza. Si mettono in relazione, su uno stesso piano di posa - il suolo naturale -, due corpi di fabbrica formalmente autonomi, trattati come due personaggi dialoganti, facendo attenzione a non interrompere la necessaria unità dell’intero. L’uno evoca la chiusura verso la Natura (è il senso dell’architettura storica in Sardegna); l’altro, invece, spinto verso una modernità linguistica più diretta, perentoria, ma mai staccata da quelle tracce di cui si è parlato. L’elemento che unisce funzionalmente i due personaggi - lo spazio dei collegamenti verticali - è anche quello che li pone in relazione dialettica, manifestando la crisi. Lo spazio di collegamento diviene perciò l’elemento in cui lo scontro tragico si genera. Uno scontro che evoca il senso della ricerca Piranesiana, e la sua capacità di manifestare il senso della crisi che l’aporia tra linguaggio ed essenza pone. Passato e futuro posti su un unico piano sincronico, nel tentativo di superare le differenze linguistiche. Così due rampe di scale conquistano le varie quote dell’edificio, incontrando ballatoi e passerelle che tagliano lo spazio dei collegamenti, a servizio delle abitazioni. La luce che attraversa lo spazio interstiziale tra i due corpi di fabbrica accostati, rimanda alla luce tragica delle Carceri del Piranesi. Luce e ombra che veicolano il senso dello spazio del Moderno, anch’esso succube della impotenza a risolvere quell’aporia, ma nella sua capacità a esprimerla. La metafisica è una possibilità immanente del discorso umano, inscritta nelle operazioni profonde del linguaggio. In conclusione, mi piace finire questo scritto citando un brevissimo passo tratto dalla prefazione alla traduzione italiana di ‘Hallenbauten’ di Hilberseimer, in cui Salvatore Bisogni, con sintesi risolutiva di quanto qui sostenuto e sottinteso, scrive:
Dal più alto livello intrinseco dell’astrazione raggiunta con le scansioni derivanti dall’impianto metrico-costruttivo dell’intero manufatto potrà emergere una nuova soluzione, che a un tempo, evocherà tutte le precedenti, fino ad anticipare quelle future.