Articolo per la rubrica "L'architettura dopo la Storia" per "il Quotidiano del Sud"
La modernità è divisa tra chi ha cercato un nuovo linguaggio architettonico, in cui l’Io ha finito per farla da padrone, e chi ha cercato di rivelare, oltre quell’Io, dimensioni e aspetti che riguardassero tutti, intendendo l’arte come una forma di conoscenza della realtà. Spesso l’ansia di adesione allo Zeitgeist (spirito del tempo) ha contraddistinto i primi, portandoli fuori strada. Per il fine dei secondi, ci si trova spesso a un modus operandi per sottrazione, dove ogni meno agìto sul linguaggio corrisponde a un più a favore dello spirito. Quest’ultimo atteggiamento – da non confondere con il cosiddetto ‘minimalismo’ – ha raggiunto vette altissime in tutte le arti. Nell’ «Interno Co.op» progettato da Hannes Meyer nel 1926 si ha evidenza della forza che può assumere il metodo per sottrazione. Il sostrato ideologico sotteso nell’opera di Meyer, che agiva sotto l’egida della cultura marxista, girava intorno alla possibilità di togliere spazio all’individualismo autoriale per individuare e tentare di dar forma a un (ipotetico) ‘soggetto collettivo’, avendo egli intuito la deriva mercificante del linguaggio tecnologico proprio del capitalismo, che stava progressivamente mettendo le mani su tutte le arti. Il benessere materiale andava svuotando di contenuti spirituali tutte le espressioni della società. Andando però oltre questa lettura storica, l’asettica essenzialità che emerge in quello spazio è una spinta alle estreme conseguenze della riduzione linguistica, per lasciar vivo il contenuto spirituale dell’operazione estetica, che è il vero oggetto delle arti. Nella sua stanza le funzioni sono presentate come in un elenco: un letto, ridotto ai suoi elementi funzionali, una sedia pieghevole sotto un piccolo scaffale pensile con mensole portaoggetti in vetro, una seconda sedia piegata ed appesa vicino al letto, e un tavolino nell’angolo con sopra un grammofono per ascoltare musica, in uno spazio in cui il bianco assume con chiarezza i suoi connotati di astrazione e luce. L’elenco delle funzioni, nella sua nudità, programmaticamente diviene pensiero metafisico e ci spinge a riflettere sul ‘ciò che è’, quello spazio destinato all’abitare, nella sua intima e profonda realtà. Un linguaggio ridotto al suo azzeramento, l’unico possibile, capace di sgombrare il campo alla riflessione sulla natura dell’abitare dell’uomo. Al di là dell’apparente immagine monacale dello spazio, e quindi anche del suo portato etico – prepotentemente presente – si fa avanti la potenza delle cose elementari, delle cose semplici, e la loro capacità di alludere a ciò che è dietro. Il realismo della stanza di Meyer ha una forza pedagogica come le poesie di Brecht, ci dice che le cose non possono diventare diverse da ciò che sono e che ogni artificio è solo pura superficie che non riesce a snaturare le cose. Ci costringe a fare i conti con il kitsch che ci segue sempre perché appartiene alla nostra dimensione temporale, mostrando – quasi lapalissianamente - la vanità dei formalismi estetici. La metafisica qui diviene etica: ‘ciò che è’ diviene – nel processo dell’ideazione – ‘ciò che deve essere’. La bellezza, da Platone, è sempre legata al Bene e al Giusto. Più l’uomo è preso dal desiderio di forma più si allontana dallo «stato di massima semplicità» (Holderlin); più tende a uno «stato di massima formazione» e più perde la visione del Tutto. Eppure troviamo le nostre ragioni solo nel Tutto che è oltre il visibile, sebbene consapevoli che è impossibile raggiungerlo. Holderlin scrisse: «ciò che per me non è Tutto, che non è tutto eternamente, è per me Nulla»: cambiando l’ordine dei termini, con Hannes Meyer, potrebbe dirsi: ciò che per me è nulla, è tutto eternamente, perché identico solo a se stesso.
Didascalie immagini:
- Hannes Meyer , Interno Co.op (1926).