Articolo per la rubrica "L'architettura dopo la Storia" per "il Quotidiano del Sud"
Il
superamento della forza seducente dell’apparenza a favore del legame tra
espressione e conoscenza è ciò che ha mosso i fondatori della nostra civiltà,
la sapienza greca. Il famoso enigma dei pidocchi, che Aristotele riprese da un
antichissimo racconto, secondo il quale alcuni marinai esposero ad Omero il
seguente enigma: «Quanto abbiamo preso
l’abbiamo lasciato, quanto non abbiamo preso lo portiamo», è ciò che fece
trovare la morte a Omero, proprio a causa della sua incapacità di ‘vedere’. È
un po' quanto accade ogni volta che, nell’analizzare una architettura, non
riusciamo a vedere quanto è essenziale e proiettiamo su di essa significati che
sono fuori dall’essenza di quell’oggetto. Il racconto infatti narra che Omero,
non riuscendo a vedere nella sostanza l’immagine che aveva davanti non capì che
i marinai parlavano dei pidocchi che avevano preso e uccisi facendoli cadere,
mentre quelli che non erano riusciti a prendere li portavano nelle vesti.
Questo accade anche di fronte all’architettura. Quando si pensa a un qualsiasi
oggetto dal punto di vista estetico, è necessario determinare la precisa configurazione
di tutti gli elementi che concorrono a dare forma al significato di cui
quell’oggetto è portatore. La forma visibile, ciò che appare, deve essere frutto
di un processo di conoscenza che mostra il significato dell’oggetto. Se
l’architettura non può che essere costruzione (tutti i tentativi fatti nel 900
che affrontavano strade diverse da questa, si sono rivelati essere vittime
della storicità dei linguaggi, vera e propria ‘caduta’ del linguaggio nella
morsa del Tempo), gli elementi che danno forma all’oggetto architettonico
devono concorrere alla definizione dell’unità di significato, che deve a sua
volta mostrarsi con chiarezza. La ricerca della giusta forma è quindi un
percorso di conoscenza che conduce all’oggetto architettonico. Il problema gnoseologico
coincide cioè – sul piano estetico - con il problema dell’espressione. Questo
ultimo aspetto mostra l’equivocità del problema della rappresentazione se
affrontato come oggetto dell’operazione estetica, cioè se preso in sé come
obiettivo (ne abbiamo tutti facile cognizione guardando le architetture
prodotte dai regimi totalitari, il cui obiettivo è la propaganda messa in
rappresentazione, e non lo spazio in sé). L’espressione del significato può
avvenire solo attraverso la chiara individuazione degli elementi sostanziali
della forma-edificio; determinare una forma architettonica significa pertanto mettere
ordine tra gli elementi o, meglio, far
emergere la ragione di ogni singola parte, secondo necessità, rispetto al
tutto. Ecco perché dopo secoli è riemersa, in alcuni capolavori del novecento,
la riflessione sugli elementi fondamentali dell’architettura antica: il piano
basamentale, i pilastri e il tetto-copertura. Questa riduzione della
complessità della costruzione di un edificio a poche parti non è elementarismo
(men che meno minimalismo), ma ricerca sofisticatissima della forma appropriata
di un edificio in vista della chiarezza del significato. Tutta la ricerca di
Mies van der Rohe, esemplare sotto questo punto di vista, in particolare del
periodo americano - con la sua chiara individuazione del problema già nel ’29
con il Padiglione di Barcellona -, ha riguardato la definizione di queste
fondamentali parti dell’architettura. I suoi edifici ad aula (Halle) sono il
continuo tentativo di definire con sempre maggiore chiarezza la natura dei tre
elementi che determinano uno spazio architettonico. Spazio architettonico
rimasto – nella sua essenza - ancora insuperato sul piano della modernità, se
non ci si vuole abbandonare alla seduzione delle sole immagini. La lezione di
Mies è la sintesi di tutta la cultura dell’occidente sin dalla sua fondazione. È
per questo che arrestandosi, come ormai accade spesso, alla sola forza
seduttiva delle immagini, la nostra civiltà muore ogni volta.
Didascalie immagini:
- Mies van der Rohe: Bacardi Office, Santiago de Cuba 1957-60