Articolo per la rubrica "L'architettura dopo la Storia" per "il Quotidiano del Sud"
La forma di un oggetto, così come accade per l’architettura, è tramite di ciò che la sostiene, appare cioè come risposta alla domanda sul ‘cosa è’ quell’oggetto. Nella ideazione di un oggetto, la forma viene quindi interrogata dalla domanda di cui essa è ‘risposta’, il ciò che è dell’oggetto la in-forma, la domanda ne è causa. Questo aspetto evidenzia (e scansa) la caducità e l’inconsistenza di bizzarrie formali – spesso veicolate attraverso la cosiddetta ‘creatività’ (termine ‘hobbistico’ che non c’entra nulla con la bellezza) – perché, se la forma non è fondata sulla interrogazione della sua causa costitutiva, la forma appare con chiarezza come appiccicata alla funzione dell’oggetto. Alla luce di queste riflessioni, cercare la giusta forma di un oggetto mirando alla domanda metafisica sul cosa è quell’oggetto appare quindi un atteggiamento di profondo, e vero, realismo. In questi casi, anzi, si potrebbe dire che il realismo dell’oggetto sia sostenuto dal sur-realismo della domanda da cui esso stesso prende forma. Nel Design solo nei migliori casi si è raggiunto e si raggiunge una tale coincidenza di idea e forma. Questo approccio può costituire un vero e proprio metodo progettuale (come è accaduto per il Bauhaus), al punto che il metodo stesso può ‘produrre forma’. Il risultato non è però meccanicistico come appare. Anzi, proprio perché inteso come metodo e non come fine, esso è in grado di produrre forme inaspettate e quindi il vero ‘nuovo’: si pensi, su tutte, all’uso del tubolare curvato delle sedute Wassily di Breuer. Così è anche per gli oggetti disegnati da Kazuhide Takahama (1930-2010). Il designer di origini giapponesi, appartenete alla scuderia dei designers gravitanti intorno all’illuminato Dino Gavina, stabilitosi nel nostro paese dal 1957, era figlio di un razionalismo metodologico fondato sulla ricerca della migliore forma industriale in grado di evocare i valori della bellezza. I suoi oggetti sono vere e proprie operazioni tecnico-estetiche: l’elementarità delle soluzioni formali di Takahama ‘pensa’ ai mezzi di produzione a cui quelle sono destinate; eppure il designer, nonostante l’estremismo metodologico funzionale alla macchina, anziché ottenere risultati esteticamente standard (come è per gli oggetti destinati alla sola quantità), ha sempre ottenuto ‘objets à réaction poétique’. Il suo metodo – sulla base del sodalizio e delle idee esteticamente ‘sovversive’ di Gavina - diviene sempre espressione di oggetti carichi di rarefatta poesia: così fu per la ricerca sulla traduzione industriale della antichissima lacca orientale (procedimento artigianale che, per nobilitare un supporto povero, prevedeva numerosi passaggi di colore per avvicinarsi a superfici lucide) confluita nella sedia Kazuki del 1969, nel mobile Bramante del 1975; così fu per l’uso del tondino di metallo pieno, in alternativa al tubolare vuoto di maggiore sezione di Breueriana memoria, che permetteva curvature più strette e le diverse saldature necessarie ‘in un sol colpo’ - sedie Tulu, Jano, Gaja -; o per le numerose e bellissime lampade - Saori, Kazuki, Sirio T -. E così è per il divano Mantilla: un divano ideato a partire dalla utilità pratica di poter cambiare il rivestimento secondo necessità, un divano da vestire a seconda delle occasioni. La riflessione di Takahama, scaturita dalla necessità di voler ricoprire una forma destinata al sedersi con il semplice gesto di appoggiare un tessuto su di essa (abitudine molto diffusa ovunque), giunge a definire la forma-divano più giusta affinché quell’azione sostanzialmente informale non facesse perdere la compostezza della forma. Il risultato così raggiunto, sebbene scaturito da necessità funzionali, produce una forma inattesa, un risultato-sorpresa, quasi una forma misteriosa (come ne “L’Énigme d’Isidore Ducasse” di Man Ray): un gesto che recupera l’eleganza della poesia e soprattutto diviene rivelazione del vero nuovo.
Didascalie immagini:
- Kazuhide Takahama, Mantilla, 1974.