Articolo per la rubrica "L'architettura dopo la Storia" per "il Quotidiano del Sud"
Progetto è ‘ciò che viene gettato avanti’ (dal latino pro: avanti e jacere: gettare, gettare in avanti): esso presuppone l’esistenza di un luogo da cui ‘gettare’ la propria visione delle cose per cambiare lo status-quo della realtà. Ma, paradossalmente, quel luogo non è un luogo reale: ha la sua origine in un non-luogo, è u-topia. L’architettura può avere un rapporto profondo con le arti sorelle, in particolare con la pittura, in simmetrica reciprocità. Per la costruzione della ‘sua’ città Aldo Rossi aveva guardato alla pittura di Mario Sironi; nelle composizioni delle sue bottiglie Giorgio Morandi si metteva alla ricerca di un equilibrio di natura architettonica prima di cominciare a dipingere il tempo attraverso i suoi oggetti immobili; si potrebbe continuare nella ricerca di questo tipo di segreto dialogo tra architettura e pittura. Questa relazione è – naturalmente - di sostanza e mai di forma, una consonanza tra la radice della figurazione pittorica e quella delle ragioni della forma architettonica. Il non-luogo da cui gli architetti e i pittori pensano si contrappone sempre alla ‘waste land’ che ci tocca vivere, pone obiezioni (ob-iettare, dal latino, è unione di ob- : contro e jacere: gettare, gettare contro) alla terra desolata che è il reale nella sua natura profondamente tragica. Quell’u-topia è un “essere-tra”, uno spazio concettuale intermedio tra ciò che rimane inespresso e ciò che viene alla luce nell’opera. Questo non-luogo è ciò che ha dipinto l’ultimo ‘dorico’ di Paestum, il pittore Sergio Vecchio (1947-2018), opponendosi al mondo dei frantumi, esprimendo il permanente di quel non-luogo immaginario eppure essenziale che è il mondo arcaico dell’inizio abissale. Come un architetto, tra i templi di Paestum, Sergio Vecchio cercava «ciò che permaneva [e] aveva sentore di eterno: […] riduzione estrema della storia all’immodificabilità dell’archetipo», come scrisse di lui Fulvio Irace nel 2015. Il fil-rouge che Vecchio condivide con l’architettura è il rapporto con il tempo, un tempo liberato dalla miseria del divenire a favore di una sperata redenzione dal qui-e-ora. E’ il tempo della memoria, svuotato dalla nostalgia, nel quale far riemergere il senso dell’unità primordiale, in cui un bestiario fantastico (animali, cani, bufali, gufi, pavoni) si muove tra colonne doriche, parti di frontoni di templi, metope, triglifi e vegetazione ancora (di nuovo!) non antropizzata, che porta con se il segno del sacro. I templi disegnati e dipinti da Vecchio sono architettura perché sono espressione della universalità dell’essenza che il Classico sovrastorico ha saputo costruire contro il divenire: apollineo e dionisiaco di nuovo uniti, così come tempo e spazio, nello xynòn (il continuo) che è la chiave di comprensione del mondo. «Che radici premono, quali rami crescono/ Da questi resti in pietra? Figlio dell’uomo, / Tu, non puoi dire o pensare, perché tu sai solo / Di un mucchio d’immagini rotte, dove batte il sole, Solo / Con questi resti ho alzato argini / Alle mie rovine» scrisse Eliot nel 1922 nella sua Terra Desolata. Quegli stessi argini aveva alzato, con la sua pittura, Sergio Vecchio; nello stesso “u-topico luogo” si era rifugiato contro le ‘immagini rotte’ del mondo: «In attesa di imbarcarmi su un veliero di Corto Maltese in direzione della Grecia in cerca dell’ignoto e di poesia, nella sconfinata solitudine in compagnia della pittura, che sconfigge ogni mio dolore, guardo con un sorriso la linea d’orizzonte del futuro e non ho paura.» (Vecchio, 2014). Quel ‘e non ho paura’ ci dice che nell’u-topia dimora la salvezza delle cose del mondo: è da quel luogo che si può lottare per invocare la propria redenzione dal tempo e dalla rovina del divenire, ed è da lì che ci si può opporre al destino. Fino al punto che, così facendo, si riesce a salvare – ancora una volta – la forza vitale del Classico.
Didascalie immagini:
- Sergio Vecchio, Le stanze dell’eremita, 2016 (Edizioni Oedipus).